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Vado a scuola, il grande giorno: film-documentario

Ho scritto già un articolo su questo grande regista, Pascal Plisson, autore del documentario Vado a scuola che narrava le storie di quattro giovani protagonisti.

Oggi vorrei scrivere invece qualcosa sul secondo documentario, Vado a Scuola: il grande giorno. Anche questa volta i protagonisti sono quattro giovani eroi, seguiti passo per passo da Pascal Plisson. Per mesi, addirittura per anni, i quattro protagonisti del film attendono questo giorno speciale che cambierà le loro vite per sempre. Essi affronteranno la prova che determinerà non solo il loro destino ma anche quello delle loro famiglie. Dopo tanto impegno e perseveranza il loro sogno sta per avverarsi.

I piccoli protagonisti di questo fantastico documentario sono:
India
Nidhi Jha 15 anni, vive a Benares, la capitale del Bihar, uno stato povero del nord est dell’India.

La storia della famiglia di Nidhi è particolarmente interessante in un paese in cui l’accesso all’educazione delle ragazze rimane una grande sfida. Con i suoi genitori, le sue tre sorelle e suo fratello, si sono sistemati in un vecchio tempio dove coabitano con altre famiglie modeste, come la sua. Quel tempio è la versione indiana dell’alloggio sociale.

I suoi genitori, pur provenendo da famiglie disagiate (Il papà guida un tuk-tuk, simile al nostro Apecar, la madre invece deve occuparsi dei bambini) insistevano che la bambina doveva studiare per potere avere un giorno una vita migliore.

Tutti i figli sono  bravi e appassionati di matematica, ma più di suo fratello e delle sue sorelle, Nidhi ha un vero dono per i numeri. Si immagina già al politecnico, che diventa ingegnere ed aiuta la sua famiglia.

Senza denaro, l’unica soluzione possibile per lei sarebbe il Super30, un corso di preparazione gratuita dove si entra con un concorso. Fondata da due fratelli, Anand e Pranav Kumar, questa scuola si fa carico della formazione intensiva di 30 studenti.

La preselezione si avvale di due principi fondamentali: essere portati per la matematica e venire da una famiglia povera di uno dei tre stati del nordest dell’India, il Bihar, l’UttarPradesh e il Jharkhand.

Credendo fortemente a questo valore, lavora duro per far parte dei 30 studenti del prossimo corso, come se tutto il suo futuro dipendesse da questo. Una grande sfida da accettare con oltre 10.000 candidati che si presenteranno al concorso d’ingresso.

Ulan-Bator (Mongolia)
Deegii Batjargai è una bambina ostinata e coraggiosa che non si lamenta mai. Proviene da una famiglia molto unita, composta dai genitori e da un fratello maggiore. Il suo sogno è di diventare una contorsionista professionista. L’imput è stato quando aveva solo 6 anni e ha visto in televisione uno spettacolo.

In Mongolia gli alunni frequentano la scuola solo nel pomeriggio, condizionati dal clima, ma Deegii si alza ogni mattina alle 5 per recarsi in una palestra. Ogni giorno e con qualsiasi tempo , anche se la temperatura d’inverno tocca anche i -30°C. I genitori, vista la caparbietà della figlia assecondano questo suo desiderio ma le spese sono alte rappresentando un sacrificio familiare. Ma l’unica cosa che le chiedono è quella di non trascurare assolutamente la scuola. I contorsionisti iniziano la loro attività molto presto ma dura al massimo 20 anni.

Il suo obiettivo è quello di entrare nella prestigiosa scuola di circo di Singapore. La sua allenatrice è riuscita a farle avere un’audizione che potrebbe far partire la sua carriera. Deegii avrà 4 minuti per convincere una giuria molto esigente.

Uganda
Tom Ssekabira ha 19 anni e vive lontano da casa da due anni. È un tirocinante alla scuola Wildlife Authority in Uganda, dove studia per diventare ranger.

Tom è sempre stato un amante dei documentari sugli animali, specialmente sui scimpanzé. Sognava gli animali e i grandi spazi.

Tom è studioso, i suoi, lo sostengono al massimo nei suoi studi. Grazie ad ottimi risultati scolastici, Tom vince una borsa di studio dallo stato dell’Uganda per pagarsi un corso a sua scelta. Sceglierà “management del turismo”. La solidarietà familiare, anche dal punto di vista economico,  si estende a tutti i suoi fratelli e le sue sorelle. Per Tom, il sostegno incondizionato della sua famiglia lo spinge ad essere il più bravo.
Affronterà il periodo dell’esame come una finale olimpica.

Cuba
Albert Ensasi Gonzales Monteagudo è un atleta. A Cuba, i grandi atleti sono l’orgoglio del paese e la scuola gli assicura un futuro, qualunque cosa accade alla loro carriera sportiva.

Egli è un appassionato di boxe. Il suo sogno è di diventare il miglior pugile della sua generazione e rappresentare il suo paese ai giochi Olimpici.

La madre di Albert, ha trovato la soluzione perché il suo pugile in erba dimostri altrettanto fervore in classe che sul ring. Se la pagella non è buona, Albert non può allenarsi.

Quando i suoi risultati a scuola sono insufficienti e sua madre glielo impedisce, vede il suo amico Roberto per un allenamento clandestino sul tetto del suo palazzo.

La prima tappa per realizzare i suoi sogni olimpici, è entrare a far parte dell’Accademia di sport e studio dell’Avana dove Albert potrà seguire un corso di studi regolare e corsi di boxe di livello professionale. A Cuba, la scuola rimane una priorità ed è impossibile lanciarsi al 100% nello sport a scapito della scuola.

Ma per entrarci serve una disciplina di ferro, un’eccellente forma fisica, serve padroneggiare la tecnica e vincere gli incontri. Se le cose non andassero come previsto con la boxe, ha già scelto il mestiere che vorrebbe esercitare: il veterinario.  Per ora, Albert deve rinunciare a suoi passatempi e concentrarsi per avere tutte le possibilità di superare la prova che gli permetterà di essere ammesso in quella scuola.  È la sfida della sua vita. 

Tratto da:
https://www.agiscuola.it/schede-film/item/583-vado-a-scuola-il-grande-giorno.html

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Marcoscrivenella sezione dedicata al nuovo progettoBaby Books TuBecon l’intento di sensibilizzare i bambini sia alla lettura che alla scrittura.

Riccioli d’oro: Shirley Temple

Vorrei citare questa straordinaria attrice che ho seguito in molti suoi film. L’ho sempre trovata incantevole, bravissima sia come attrice che come ballerina. Anche come cantante era eccezionale e molte delle sue canzoni ebbero successo. On the Good Ship Lollipop, Animal Crackers in My Soup, per citarne alcune.

Shirley Temple, soprannominata Riccioli d’oro, fu una famosissima  attrice, cantante, ballerina, protagonista di molti film intorno agli anni 30. Fu una bambina prodigio del cinema bianco e nero.
Nacque a Santa Monica, oggi sobborgo di Los Angeles,  nel 1928. La mamma, Gertrude Amelia Krieger, era una casalinga ma anche ex ballerina. Aveva due fratelli e quindi, essendo l’unica femmina, la madre riversò si u di lei tutte le ambizioni di ballerina mancata, iniziando così a farla partecipare a tutte le audizioni nella vicina Hollywood. All’età di 3 anni inizio a prendere lezioni di ballo e venne scritturata per due serie cinematografiche, dal 1931 al 1934. E il suo look cambio, i suoi capelli scuri e lisci vennero modificati in biondissimi e riccioli. I produttori, nel cambiamento, si ispirarono a Mary Pickford, attrice canadese in voga in quel periodo.
Mamma Gertrude ogni mattina sistemava i capelli della bimba in 56 boccoli perfetti. 
Innumerevoli i suoi film, da Piccola stella, La mascotte dell’aeroporto dove vinse l’Honorary Juvenile Award, costituito da una statuetta in miniatura. Premio inventato appositamente per lei, come contributo dato, attraverso lo schermo, all’intrattenimento. Seguono Riccioli d’oro, Il piccolo colonnello, Zoccoletti olandesi, Rondine senza nido
In 16 dei 20 film che Temple fece per la Fox, interpretò personaggi con almeno un genitore morto. Ciò faceva parte della formula dei suoi film, che incoraggiavano il pubblico adulto ad identificarsi con il suo genitore.

Ma anche le belle favole finiscono e Shirley, al’età di 12 anni, cominciò a non avere più fan e di conseguenza i suoi ultimi film non ottennero i successi desiderati.

Il colpo maggiore lo ebbe con il film Alla ricerca della felicità,  del 1940, con la suddivisione in una parte in bianco e nero e l’altra in technicolor. Il successo che si pensava dovesse avere si tramutò invece dal ritiro dello stesso dalle sale.Risultati immagini per shirley temple nel film alla ricerca della felicitàGirò ancora un ultimo film, sempre nel 1940, Non siamo più bambini e con questo Shirley salutò il suo amato pubblico, ringraziandolo “dei tanti momenti felici trascorsi insieme”.

Seguirono altri film ma nessuno ebbe successo e la sua fama fu solo quella di bambina prodigio.

All’età di 17 anni sposò l’attore John Agar, molto più grande di lei, coronato dalla nascita di una figlia, ma il matrimonio si rivelò un fallimento anche a causa dell’alcolismo di Agar e chiederà il divorzio nel 1950. 

Sempre nel 1950 si risposò con un uomo d’affari californiano, da cui avrà un figlio e una figlia e iniziò ad interessarsi di politica, raggiungendo diversi incarichi diplomatici.

Nel 1958 la Temple tornò alla ribalta in una serie televisiva per bambini intitolata Shirley Temple’s Storybook (in italiano Le grandi fiabe raccontate da Shirley Temple) che durò fino al 1961 ed ebbe un discreto successo, dopodiché abbandonò definitivamente l’attività di attrice, all’età di 33 anni.

Nel 2005 Melissa Gilbert (la ragazzina protagonista principale della serie televisiva La casa nella prateria) , in qualità di presidente della Screen Actors Guild annunciò la consegna a Shirley Temple del premio più prestigioso, lo Screen Actors Guild Life Achievement Award.

Melissa Gilbert dichiarò: “Penso che nessuno meriti il SAG Life Achievement Award più di Shirley Temple Black. Il suo contributo all’industria dell’intrattenimento è stato senza precedenti. Ha vissuto una vita davvero notevole, una brillante attrice che il mondo ha conosciuto quando lei era solo una bambina. In ogni cosa che lei ha fatto, Shirley Temple Black ha dimostrato una grazia non comune, talento e determinazione, per non parlar della sua compassione e del coraggio. Quando era bambina ero entusiasta di ballare e cantare i suoi film e già di recente come presidente Guild sono stata orgogliosa di poter lavorare al suo fianco, come sua amica e collega. Lei ha avuto un’indelebile influenza sulla mia vita. Lei era il mio idolo quando io ero una ragazza e rimane il mio idolo ancora oggi”.

Shirley Temple morì di broncopneumopatia cronica ostruttiva il 10 febbraio 2014, all’età di 85 anni, nella sua casa di Woodside, accudita dai suoi familiari.
È stata sepolta presso l’Alta Mesa Memorial Park, Palo Alto, California.

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Le storie dei ragazzi selvaggi

Più volte ho letto di ragazzi trovati nella foreste, se ne contano un centinaio negli ultimi secoli.

Leggendo un dettagliato articolo su Focus riguardo questo problema mi è tornato alla  mente il film, tratto da una storia vera, Nell, interpretato magnificamente da Jodie Foster. Tratta di una ragazza che ha vissuto sempre nel nord Caroline, con la madre colpita da ictus. La ragazza ha scelto di continuare la sua vita nel bosco, ambiente in cui lei apparteneva.  

Con questo siamo portati a pensare che già da piccolissimi abbiamo la percezione di sopravvivenza. Il nutrimento, indispensabile per tutti, umani e animali, è già un elemento acquisito dai primi anni. In un ambiente selvatico come la foresta o la giungla si ci nutre di ciò che la natura offre in quel determinato ambiente: foglie, radici, bacche, uova di uccelli, piccoli animali. Oppure si può presumere che siano stati “allevati” nel far questo da altri mammiferi.

“Stando in contatto solo visivo con loro, un bambino può individuare fonti d’acqua e di cibo e ripararsi in luoghi caldi e sicuri”, dice Angelo Tartabini, docente di Psicologia evoluzionistica all’Università di Parma.

La teoria dell’imprinting, che procurò il premio Nobel a Konrad Lorenz, sostiene infatti che un giovane essere vivente impara a riconoscersi in una specie piuttosto che in un’altra a partire dal legame con una figura di riferimento (la chioccia per i pulcini, la lupa per il lupacchiotti, eccetera). Dopotutto i bambini, cioè i cuccioli di uomo, non sono troppo diversi da quelli delle scimmie e come gli altri animali possono anche subire un imprinting da parte della specie che li ha adottati, finendo per assomigliare ai nuovi “genitori”. Per questo nella letteratura si parla di bambini lupo, bambini orso, bambini gazzella o bambini scimmia.

Il primo caso di ragazzo selvaggio risale al 1344, divulgato dal grande naturalista Carlo Linneo e successivamente dal filosofo francese Jean Jaques Rousseau. Alcuni cacciatori ritrovarono tra i lupi un bambino di circa 10 anni e lo portarono dal Principe d’Assia. Ma il caso che fece più clamore risale al 1798, quando fu catturato nei boschi francesi dell’Aveyron un ragazzino selvaggio di 12 anni: completamente nudo, mordeva e graffiava e, chiuso in una stanza, andava avanti e indietro come un animale in gabbia. Affidato a una vedova e poi a un naturalista, per ordine del ministero dell’Interno fu portato a Parigi e rinchiuso nell’Istituto per sordomuti, dove venne prelevato dal medico Jean Itard che ne tentò il recupero comportamentale e linguistico. Egli segnò su un diario tutti i progressi fatti dal ragazzo nel corso di 5 anni.

Progressi limitati, però, nonostante il costante aiuto e presenza. Victor imparò a comunicare ma con una sorta di pantomime (per esempio, se voleva uscire portava il cappotto e il cappello al suo tutore), ma non riuscì mai a parlare. Cominciò a scrivere diverse parole, verbi e aggettivi (gli fu insegnato prima ad accoppiare oggetti ai disegni che li mostravano, poi parole scritte ai disegni), ma mai imparò a usare i termini in modo astratto, cioè applicando le parole in un discorso in assenza degli oggetti o delle emozioni a cui si riferivano.
Morì a Parigi a 40 anni di età.Immagine correlata
Un bambino aveva due anni quando fu adottato da una leopardessa. Tre anni più tardi, un cacciatore uccise la leopardessa e trovò tre cuccioli, uno dei quali era il bambino, che ormai aveva 5 anni. Fu soprannominato Il bambino leopardo. Era il 1912. Fu restituito alla sua famiglia in un piccolo villaggio in India. La prima volta che fu catturato riusciva a correre a quattro zampe veloce come un uomo adulto in posizione eretta. Le sue ginocchia erano coperte da duri calli, le dita dei piedi erano piegate quasi ad angolo retto, e le mani, unghie e polpastrelli erano coperti da una pelle molto dura. Mordeva e aggrediva tutti quelli che gli si avvicinavano, e catturava e mangiava gli uccelli del villaggio, crudi. Non riusciva a parlare, pronunciava solo grugniti e ringhi.

Più tardi imparò a parlare e a camminare in posizione più eretta. Purtroppo divenne gradualmente cieco a causa della cataratta. Tuttavia, questo non fu causato dalle sue esperienze nella giungla, ma era una malattia comune nella sua famiglia.
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Un altro caso fu documentato dal reverendo Joseph Singh, missionario di un orfanotrofio di Midnapore, in India. Nel 1920 il reverendo volle verificare alcune segnalazioni di contadini che riferivano di aver visto due bimbe fra i lupi. Si appostò su un albero fuori da una piccola grotta, dove si sospettava si rifugiassero questi animali. Vide uscire i lupi e subito dopo entrò nella tana, dove trovò due bambine che camminavano a quattro zampe. Una aveva circa 8 anni, l’altra solo un anno e mezzo. Non si sa se fossero sorelle o meno ma si presume siano state abbandonate in periodi diversi.
Queste bimbe, Amala e Kamala,  hanno attirato l’attenzione dei lupi che vivevano in questa zona che ebbero un gesto di protezione continua nei loro confronti. Esse mangiavano solo latte e carne cruda non utilizzando le mani che invece usavano, insieme ai piedi,  per spostarsi.
Amala, la più piccola, morì di nefrite mente Kamala visse ancora otto anni. Imparò a pronunciare 50 parole, a comunicare con i gesti, a ridere e a giocare con altri bambini.

Nel 1933, in una foresta del Salvador, venne trovato un bambino di 5 anni, Jorge Ramirez.  Nudo, capelli lunghi, postura ricurva, vocalizzazioni da scimmia. Battezzato con il nome di Tarzancito, imparò a ripetere alcune parole senza però capirne il significato. Poi, vivendo nella comunità umana, cominciò a lavarsi, a vestirsi a scrivere e a leggere alcune parole, a fare anche semplici conti.

Nel 1992 un ragazzino di circa 15 anni venne avvistato nei pressi di una mandria di bufali nel Parco nazionale Marahouè, in Costa d’Avorio. Non parlava e aveva ginocchia callose, segno di andatura a carponi. «Faceva alcuni versi, emettendo i vocalizzi degli scimpanzé» raccontò il capo dei ranger del Parco. «Non è un demente» assicurò l’assistente sociale dell’ospedale di Boufalé, dove fu ricoverato. Di lui però si persero presto le tracce: secondo un giornalista della televisione nazionale ivoriana, che seguì il caso, fu nascosto da presunti parenti al preciso scopo di preservare i suoi poteri magici, che gli derivavano dalla vicinanza alla natura selvaggia e agli spiriti.

Tra gli ultimi casi segnalati (di attendibilità non chiara) ci sono quelli di John Sebunya in Uganda e di Bello in Nigeria. Il primo scappò di casa quando vide il padre uccidere sua madre a circa 4 anni di età, sopravvisse nella foresta e fu catturato nel 1991 mentre era con un gruppo di cercopitechi verdi che tentarono di difenderlo. Bello fu invece trovato piccolissimo (circa 3 anni) nella foresta di Alore, in Nigeria, nel 1996. Mostrava i comportamenti degli scimpanzé della zona, facendo pensare di essere stato adottato da loro. Nonostante gli sforzi degli educatori, non ha mai imparato a parlare ed è morto nel 2005.
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Tra i ragazzi selvaggi di oggi c’è Ivan Mishukov, soldato dell’esercito russo di 27 anni. Un’infanzia difficile: tra i 4 e i 6 anni ha vissuto con un branco di cani randagi. Si è conquistato la loro fiducia con del cibo e, in cambio, ha ottenuto protezione e calore di notte. Ivan è scappato di casa per sfuggire agli abusi del compagno alcolizzato della madre. Così come l’ucraina Oxana Malaya, oggi trentacinquenne. Entrambi hanno vissuto la tenera età tra i cani randagi e quando sono stati ritrovati camminavano carponi, non parlavano e ringhiavano. Sono riusciti però a superare il passato e a imparare la lingua del loro paese, dimostrandosi individui perfettamente sani, che sono riusciti a integrarsi nella società. 
Anche Madina ha vissuto con i cani dalla nascita fino all’età di 3 anni, condividendo il cibo e dormendo con loro durante il freddo inverno. Quando gli assistenti sociali la trovarono nel 2013, era nuda, camminava a quattro zampe. Il padre di Madina se ne era andato poco dopo la sua nascita. Sua madre, di 23 anni, si era data all’alcol. Era spesso troppo ubriaca per prendersi cura di sua figlia e spesso spariva. Sua madre alcolizzata si sedeva a tavola per mangiare mentre la figlia rosicchiava le ossa sul pavimento con i cani. Così i cani sono diventati i suoi unici amici.

I medici hanno riferito che Madina è mentalmente e fisicamente sana nonostante il suo calvario. C’è una buona probabilità che avrà una vita normale, dopo che avrà imparato a parlare in maniera simile ad un bambino della sua età.
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A questi casi si sono poi aggiunti anche quelli di Rochom P’ngieng, una ragazza cambogiana ritrovata nel 2007 dopo aver vissuto alcuni anni nella giungla (si era persa all’età di 8 anni) e il cosiddetto bird-boy, un bambino di sette anni scoperto nel 2008 nella campagna russa e cresciuto un una casa di due stanze in cui viveva insieme a decine di uccellini in gabbia. Era incapace di parlare: emetteva solo cinguettii.
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Sujit Kumar, denominato l’uomo-pollo delle Fiji. Il nonno non sapendo cosa fare di lui dopo la morte dei genitori, lo ha tenuto rinchiuso in un pollaio dai tre agli otto anni, o che una volta “salvato” ne ha passati ventiquattro legato al letto di un ospizio.Marcos Rodríguez Pantoja, oggi settantaduenne, lamenta l’eccessivo rumore e gli odori nauseabondi da quando vive tra gli uomini. Per 12 anni ha vissuto con i lupi tra le montagne. Orfano di madre, è stato venduto dal padre a un montanaro e alla morte di quest’ultimo è rimasto solo tra le montagne della Sierra Morena. I pochi segreti che aveva appreso dal montanaro però gli hanno salvato la vita: ha imparato a riconoscere erbe, bacche e funghi commestibili e a costruire trappole per catturare la selvaggina. Inoltre, a quanto dice, in poco tempo è riuscito a farsi accettare da un branco di lupi. Il suo racconto sulla vicenda è quantomeno fantasioso, ma in effetti ci sono foto e video che testimoniano il rapporto speciale di quest’uomo con dei lupi, richiamati attraverso una perfetta tecnica di wolf-howling.

Marina Chapman, oggi è una signora di circa 60 anni e anche la sua storia è incredibile. Marina fu rapita, attorno ai cinque anni, forse in Colombia. Abbandonata nella giungla, visse con una famiglia di scimmie cappuccino per circa cinque anni. Si nutriva di bacche, radici e banane, dormiva sugli alberi e camminava a quattro zampe, e quando fu ritrovata, da un gruppo di cacciatori, non riusciva più ad esprimersi con un linguaggio umano.

Quelli che potevano essere i suoi salvatori, in realtà la trattarono come una delle loro prede: la vendettero in un bordello di una città colombiana, in cambio di un pappagallo raro. Lei però riuscì a fuggire e a vivere di espedienti per diversi anni, finché una famiglia la raccolse dalla strada, e la fece diventare la serva di casa. Nel 1977 si trasferirono tutti in Gran Bretagna, dove la donna ebbe la possibilità di formare una famiglia propria. Insieme con la figlia più giovane ha scritto un libro sulla sua esperienza con le scimmie: “The Girl with No Name”, che in Italia è uscito con il titolo La Figlia della Giungla.Storie di 'ragazzi selvaggi' 4

Tutto questo ci fa capire che la voglia di sopravvivere è insita in ognuno di noi, non importa come e per quanto tempo ma dobbiamo aggrapparci a ciò che abbiamo e sfruttarlo al meglio. Non importa chi ci protegge, chi ci nutre, il nostro destino è nelle loro mani (o zampe come in questi casi). Questi esseri che noi denominiamo animali, in modo quasi dispregiativo, si sono presi cura di piccoli bambini allevandoli e nutrendoli come se li avessero concepiti loro.
A loro modo li hanno amati e forse sono stati ricambiati. Chissà!

Tratto da:
https://www.focus.it/ambiente/animali/le-vere-storie-dei-ragazzi-selvaggi

https://www.vanillamagazine.it/5-drammatiche-storie-vere-di-bambini-cresciuti con gli animali

https://www.keblog.it/bambini-ferini-animali-selvatici-fotojuliafullertonebatten

Le foto sono della fotografa londinese Julia Fullerton Batten

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Filastrocca: la tristezza del nonno

Quel bacio all’improvviso
scoccato sul mio viso
si, ve lo devo dire, 
mi ha fatto trasalire.

il bacio di un nonnino
incontrato quel mattino, 
vicino casa mia
e nella stessa via.

Andavo a pescare 
con gli amici, ero al mare,

la mamma mi guardava
mentre il mio passo si allontanava.

È durante quel cammino
che ho incontrato il nonnino.
Era magro, abbacchiato,
chissà cosa gli era capitato.

Continuai a camminare
ma da dietro le spalle lo volli guardare,
lo vidi venire avanti
ma i suoi passi erano stanchi.

Tornando a casa a quel bacio pensai,
non aveva senso, perché giammai,
quell’uomo a me sconosciuto,
aveva fatto quel gesto insoluto.

Raccontai allora tutto alla mamma,
che mi delucidò di questo dramma,
il suo figliolo e il suo nipotino
eran partiti quel triste mattino.

Molto lontani dovevano andare,
il lavoro del papà era oltremare;
non era sicuro di poterli ritrovare
e con quel bacio li lasciava andare.

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La nuova Mowgli

Quante volte abbiamo riscontrato che le favole diventano realtà? Basta ricordare alcune favole classiche per pensare che ciò può realmente esistere.

Esempio tipico Biancaneve, dei fratelli Grimm, del 1812, che tratta dalla vera storia di Margarete von Waldeck, una giovane nobildonna tedesca. I suoi genitori erano proprietari di una miniera e assumevano dei ragazzini per lavorarci, in condizioni di sfruttamento giovanile. Da qui l’idea dei 7 nani, riferendosi appunto alla loro altezza. Anche il rapporto con la matrigna trae spunto da vicende reali. La vera matrigna di Margarete odiava così tanto la ragazza che decise di mandarla alla corte di Bruxelles. Qui la giovane conosce il principe Filippo II di Spagna. Un amore destinato al lieto fine proprio come nelle favole. Peccato che il padre di lui si oppose a tale unione e decise di avvelenare la ragazza. Non è certo una favola a lieto fine ma se le circostanze fossero state diverse avrebbe potuto esserlo.

Altra famosa fiaba Hansel e Gretel, del 1812, sempre dei fratelli Grimm. Lo spunto è stato dato per il vagabondaggio dei bambini in seguito alla grande carestia che colpì l’Europa. In particolare la vicenda riguarda la Germania del Trecento. Le persone, per sopravvivere in questo contesto compirono atti di violenza,  compreso l’infanticidio e il cannibalismo. Probabilmente la favola si riferisce a due orfani abbandonati.

E Cenerentola, di Charles Perrault, che si rifà a una vera storia cinese .

Ma torniamo alla favola attuale di cui vorrei parlarvi: Il libro della giungla, di Rudyard Kipling, scritto nel 1894.

Un classico, conosciuto e utilizzato dal mondo scout per i principi educativi. Il libro descrive le avventure di Mowgli, un cucciolo d’uomo perdutasi nella giungla indiana, adottato e cresciuto da un branco di lupi.

E oggi, nell’era moderna, ritroviamo la nostra Mowgli, in India, come nel libro, ma allevata da scimmie e non lupi. È una bimba all’incirca di 8 anni.

Un ufficiale di polizia in pattugliamento nella Riserva naturale di Katarniaghat è rimasto incredulo nello scorgere una bimba nuda che correva nascosta tra le scimmie.

Questi, con cautela, ha tentato immediatamente un avvicinamento: la bimba e le scimmie hanno preso ad urlare nel tentativo di spaventarlo. L’ufficiale, con estrema pazienza e perseveranza, alla fine è riuscito a portarla via consegnandola ai medici dell’ospedale locale, dove è stata soprannominata Mowgli 2.0

Solo il tempo ci dirà quanto e quanto la bimba potrà tornare alla normalità ma i medici sono fiduciosi in questo, data la giovane età della fanciulla.

Le auguro con tutto il cuore che la sua sia una favola a lieto fine.

Filastrocca: il topino birichino

Un gattino riposava
nella cuccia e non si alzava,
mamma gatto lo chiamava

ma il micetto non l’ascoltava.

Mentre dormiva passò un topolino
e vide il gattino nel suo cestino,
si avvicinò pian pianino

e lo morsicò sul sederino.

“Ahi che dolore, povero me”
Disse il micio tra sé e sé,
il sederino intanto gonfiava
e il topolino sghignazzava.

“Perché mi hai fatto tanto male,
io sono buono, non lo scordare
e la mia pappa con te ho condiviso,
il riso e il formaggio abbiamo diviso.”

Il topolino aveva sbagliato,
come poteva aver scordato
che il gattino era suo amico,
perché mai lo aveva ferito?

Chiese perdono al povero gatto
del misfatto che aveva fatto,
era davvero molto pentito
e del micetto fu di nuovo suo amico.

L’infermiera ieri e oggi

Ho avuto modo di passare due giorni, come degente, nell’ospedale dove ho vissuto parte della mia vita, come infermiera. Contemporaneamente  ho proseguito a leggere il libro Chiamate la levatrice, di Jennifer Worth, ambientato nell’East London negli anni 50.

In questo straordinario libro viene descritto il lavoro delle levatrici, oggi chiamate ostetriche, in un ambiente povero, con pochi medicinali a disposizione, in un degrado totale e con un elevato numero di nascite. In quel periodo esse avvenivano in casa, tra panni stesi, letti improvvisati, bimbi mezzi nudi che giravano per casa, pochi alimenti nutrizionali.

Ma le levatrici, in mezzo a tutto questo squallore chiudevano gli occhi e portavano avanti il loro lavoro non giudicando mai l’ambiente che a loro si presentava. Il loro unico scopo era aiutare la gestante a portare alla luce il bimbo. Ore e ore di attesa, andata e ritorno più volte tra la sede religiosa in cui vivevano, anche se erano laiche e la casa dell’assistito. Non c’era orario, stagione, malessere che poteva trattenerle. Il loro unico scopo era quello!

Citerei anche la figura di Florence Nightingale, di cui ho già parlato in uno mio precedente articolo, soprannominata la Signora della lanterna per la consuetudine che aveva di aggirarsi di notte tra i soldati con la famosa lanterna, per confortare, assistere dare speranza.

Ritornando alla mia degenza ho notato dei notevoli cambiamenti che mi hanno fatto riflettere molto. Avevo già sentito parlare del fatto che il paziente oggi è un numero, che non esiste più il rapporto infermiera-paziente, che manca la spontaneità, il sorriso, lo scambio di sguardi ma credevo che si esagerasse, come ormai si è soliti fare.

Ma mi sbagliavo, ho constatato infatti che è così, sembra che ognuno viaggi su due binari diversi, su due vagoni diversi e che l’obiettivo finale non sia lo stesso: la guarigione.

Eppure non è passato moltissimo tempo, come nel caso del libro citato, ma ho notato lo stesso il cambiamento negativo.

Nei classici corridoi dell’ospedale tutto è più calmo, più lento, sembra di girare un film alla moviola, chi deve giacere a letto per ore o giorni non ha più una parola di conforto, un sorriso dato anche velocemente, un saluto giornaliero.

Altra cosa che non riesco ad accettare è il contatto obbligatorio dato con i guanti di lattice. Ai miei tempi questi venivano usati esclusivamente  in caso di possibilità di contagio mentre oggi sono di routine. Il contatto è freddo, crea barriera.

Se ritorno ai miei tempi tutto era diverso, non dico migliore perché il lavoro era tanto. Le siringhe erano di vetro e non erano monouso, dovevi sterilizzarle tutti i giorni tramite bollitura. Non parliamo degli aghi, li potevi sostituire solo se avevano la punta scheggiata. Le garze per la medicazione erano contate e i guanti lesinati. Ma una cosa che non mancava mai era il giro del reparto al mattino e il saluto. Te lo inculcavano nel corso, te lo ricordava ogni giorno la Capo sala e quindi era una cosa che facevi sempre, prima di iniziare la tua giornata. Ti informavi della notte passata, se aveva delle necessità. Come va? Come ha passato la notte? Ha problemi? Ha bisogno di qualcosa?  Queste erano le domande quotidiane.

Ho trovato che è soprattutto quello che manca, il dialogo.

Ho notato invece più aggregazione tra il personale. Anche questo non esisteva. Avevi lo scambio con gli altri infermieri solo per il passaggio di consegne tra un turno e l’altro, se avevi del tempo libero cercavi come sfruttarlo al meglio. Poteva essere un mettere a posto gli strumenti, leggerti una cartella clinica per aggiornarti, stare vicino a chi stava soffrendo o ai famigliari, stare accanto a chi era solo. Una parola di conforto fa sempre piacere, ti risolleva il morale.

E poi, per ultimo, la privacy. Ti fanno firmare un foglio per la privacy ma dovrebbe comprendere anche quella del corpo, non solo dei dati anagrafici.

Il tuo corpo è alla mercé di tutti, in primis i tuoi compagni di camera, perfetti sconosciuti fino a qualche giorno o qualche ora prima. Se poi ci metti anche il parente che non può lasciare la stanza perché deve stare vicino al congiunto…

E poi gli infermieri, gli addetti alla pulizia, magari anche l’imbianchino. Tu sei lì, che cerchi di arrangiarti alla meglio per i bisogni giornalieri e senti parlare di moda, di calcio, ecc. Oppure al contrario, i tuoi bisogni stanno con te ore e ore, per farti compagnia e quando si ricordano di te il tuo corpo è deformato!

Ai miei tempi era d’obbligo la cuffia inamidata la cuffia o addirittura il velo con i capelli raccolti dentro lo stesso, sembravi una suora, ma almeno non te li trovavi nel pasto, nel letto, ecc.

Esistevano i paraventi, te li portavi sempre dietro come la coperta di Linus, isolavi il paziente da ogni sguardo, lo facevi sentire più libero, più umano. Ora credo che questi facciano parte solo di un arredamento giapponese, non più nostro.

E portavi la cuffia o addirittura il velo con i capelli raccolti dentro lo stesso, sembravi una suora, ma almeno non te li trovavi nel pasto, nel letto

Pudore? No, rispetto! 

Con questo mio scritto non voglio fare di ogni erba un fascio, questa è stata solo la mia esperienza. Sicuramente esistono delle ottime infermiere,  loro hanno il mio più grande rispetto, ma sfortunatamente non ho avuto l’onore di incontrarle in questa mia ospedalizzazione. 

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I primi passeggini della storia

Il primo passeggino venne costruito 1739 in Gran Bretagna dall’architetto William Kent che elaborò per il duca del Devonshire, dandogli una forma a conchiglia che abbracciasse il bambino consentendogli una posizione quasi seduta e confortevole grazie al rivestimento interno fatto di molle. Il suo decoro richiamava la pelle del serpente ed era fornito di briglie dove attaccare un animale non meglio specificato, forse una capra o un pony. Diciamo una carrozza in miniatura.

Fu subito un successo. E così la moda per il passeggino spopolò e divenne un mezzo estremamente lussuoso che solo i più abbienti potevano permettersi.

Gli anni seguenti importanti innovazioni furono messe in atto. Innanzitutto i passeggini furono dotati di maniglioni per poter essere spinti dai genitori.

Con l’avvento della regina Vittoria e il suo acquisto di ben tre passeggini, questi divennero un vero e proprio status symbol per la nobiltà, tant’è che la regina stessa invitò quanti volessero far parte dell’alta società a procurarsi un passeggino per la loro prole.

Molti modelli iniziarono ad essere associati alla “royalty” con dei nomi importanti come Duchessa o Principessa.

Tuttavia il vero e proprio cambiamento radicale si ebbe nel 1889 grazie a un tale Richardson che creò il primo passeggino reversibile della storia! Grazie al suo particolare meccanismo innovativo il bimbo poteva così godere del fronte mamma e una volta più cresciutello del fronte strada.

Richardson quindi è da considerarsi il vero padre del passeggino perché tante delle sue innovazioni sono in uso ancora oggi!.

Con la fine della prima guerra mondiale si assistette al primo baby boom che aprì il mercato del passeggino anche alle famiglie più povere e ciò portò altri accorgimenti per aumentarne la sicurezza: dal blocco ruote alle ceste più profonde per evitare rovinose cadute al pupo

E anche a livello di design furono introdotti materiali più pratici ed economici come plastica e gomma che vennero a sostituire i vecchi passeggini di legno e vimini e resero la spesa affrontabile da chiunque.

Nel 1965 l’ingegnere aereonautico Owen McLaren assecondò la richiesta della figlia di avere un passeggino stabile e leggero e al tempo stesso non ingombrante e maneggevole con cui poter tranquillamente spostarsi nei lunghi viaggi. Sfruttando le sue nozioni di aereonautica elaborò “Umbrella” il primo vero e proprio passeggino compatto, immortalando per sempre il suo genio!

Lo chiamò B01 buggy. Un nome che somigliava più a quello di un aereo o un jet da caccia. Il passeggino era realizzato completamente in alluminio, era leggerissimo (solo 3kg!) e aveva un meccanismo di chiusura 3D. A quei tempi era rivoluzionario.

Anno dopo anno i passeggini hanno subito delle mutazioni incredibili: oggi hanno i freni a disco, lo stereo incorporato e alcuni anche gli schermi lcd annidati nella tendina parasole… Questo è il progresso!

                                                 1830
                                      1848                                         fine 800                                                   1906                                                   1931

Tratto da:

https://www.cercapasseggini.it/notizie-passeggini/la-storia-del-passeggino-lunga-tre-secoli-262.asp

www.bravibimbi.it/curiosita/i-30-passeggini-che-hanno-fatto-la-storia

Alison Hargreaves e Tom Ballard

In questi giorni non si parla d’altro che della morte dei due giovani alpinisti, Daniele Nardi e Tom Ballard.

Come scrivono in più parti: la montagna dà, la montagne toglie. Lo sanno tutti coloro che affrontano i percorsi in alta via. Le avversità sono nascoste in ogni angolo,  sono imprevedibili e a volte letali. Ma quando hai nel DNA questo bisogno inarrestabile di cimentarti con te stesso, quella voglia di montagna, di solitudine, di estese immense, di silenzio non pensi ad altro. Il bisogno di salire, farlo verso l’impossibile, dove solo pochi hanno la fortuna e la capacità di riuscirci. E noi dal basso guardiamo queste imprese, forse le giudichiamo, ma lo scalatore sa il rischio che corre e non ne può fare a meno. È troppo forte l’impulso, la necessità di farlo. Lo scalatore ha bisogno di questo per vivere, la montagna per lui è la vita, quella che rischia ad ogni passo che fa, ben cosciente di questo. Ma non ne può fare a meno.

Mi ha colpito particolarmente la storia di Tom Ballard, figlio della sfortunata alpinista britannica Alison Hargreaves (1962-1995).

Lo scopo di vita di questa giovane mamma era la montagna. Era salita in solitaria la pericolosa parete nord dell’Eiger, in Svizzera, incinta di Tom. Per questa eroica impresa è stata criticata ma quale mamma metterebbe a rischio l’incolumità del figlio se non ne avesse la necessità vitale di farlo?

Le sue imprese sono indescrivibili, hanno lasciato il segno, nessuna donna in quel periodo ha eguagliato le sue imprese. Nessuna era al suo livello.

La sua prima spedizione extraeuropea è stata in Nepal, a 24 anni. Fece squadra con tre americani, Jeff Lowe, Tom Frost e Marc Twight con i quali aprì una via nuova, molto tecnica, sulla montagna. Un’impresa che stupì il mondo alpinistico.

Nel 1993, accompagnata dalla famiglia, compie un memorabile viaggio sulle Alpi durante il quale completa le 6 classiche Nord in solitaria: Eiger, Cervino, Aiguille Dru, Pizzo Badile, Grandes Jorasses e Cima Grande di Lavaredo.

Nel 1994 tenta di conquistare l’Everest senza ossigeno, da sola, senza compagni e senza sherpa ma deve rinunciare per un inizio di congelamento agli alluci. Ma non demorde, pochi mesi dopo ci riprova trasportando da sola i suoi materiali e senza far uso di bombole ed è un successo nazionale.

Ma la montagna è una droga, non ne puoi fare a meno per cui poco tempo dopo riparte per salire sul K2, insieme ad altri alpinisti. Anche questa impresa riesce  ma da lì non fa mai ritorno. Una bufera di neve li sorprende e muoiono tutti.

Il suo proverbio preferito era: “Un giorno da leoni è meglio di cento giorni da pecora“, che è stata fonte di continua ispirazione anche per i suoi figli.

Un mondo per noi sconosciuto, dove non vi è confine tra cielo e terra, dove lo spazio è talmente immenso che ti toglie il fiato dallo stupore, dalla meraviglia. Tutto questo ha unito per sempre i due giovani alpinisti, mamma e figlio, uniti da uno stesso destino che hanno condiviso per anni, fino alla fine.

Le montagne saranno il vostro rifugio, le nuvole e il cielo il vostro tetto, il silenzio la vostra ninna nanna eterna.

Addio Alison e Tom.

 

Vado a scuola: film-documentario

Con molta curiosità ho visto questo film-documentario e mi ha colpito molto, sia per le vicissitudine dei personaggi sia per le scelte finali.

Narra la storia di 4 bambini, provenienti da varie parti, uniti però dalla stessa sete di conoscenza.

Dalle savane sterminate del Kenya, ai sentieri tortuosi delle montagne dell’Atlante in Marocco, dal caldo soffocante del sud dell’India, ai vertiginosi altopiani della Patagonia, i quattro protagonisti, Jackson, Zahira, Samuel e Carlito sanno che la loro sopravvivenza, dipenderà dalla conoscenza e dall’istruzione scolastica.

Per soddisfare questo desiderio (e come milioni di loro coetanei nel mondo) affrontano, nella maggioranza dei casi quotidianamente, percorsi lunghissimi e spesso pericolosi. Ognuno di loro ha un sogno di emancipazione che nessun ostacolo può frenare

Pascal Plisson, documentarista francese con il rispetto, l’immediatezza e il meravigliato stupore di chi filma gli animali della savana, ha osservato e narrato il lungo e pericoloso cammino verso l’istruzione di questi  quattro bambini.I piccoli protagonisti di questo fantastico documentario sono:

Laikipia – Kenya

Jackson 10 anni, che percorre, mattina e sera con la sorellina, Laila. due chilometri in mezzo alla savana e agli animali selvaggi.

Come un suo insegnante ci racconta, egli è uno studente che ama le sfide, straordinariamente intelligente, capo della sua classe e capitano della squadra di football.

La sua ambizione è vincere una borsa di studio, così che un giorno potrà andare al college.

Jackson sogna di essere così istruito da poter ottenere un buon lavoro e riscattare la sua famiglia dalla povertà. Nel suo sguardo possiamo vedere quello stesso barlume che notiamo negli occhi degli altri bambini che provengono dagli angoli più remoti del mondo, pronti a scavalcare le montagne pur di assicurarsi una istruzione.

Jackson Saikong grazie a una borsa di studio, alloggia un in collegio e non deve più temere gli elefanti E un giorno forse potrà volare in aereo su tutta l’Africa, come sogna da sempre.

Il suo sogno è di diventare un pilota.

Patagonia – Argentina

Carlito, 11 anni, attraversa le pianure della Patagonia su un cavallo, portando con se la sua sorellina.

Carlito non è come gli altri studenti. Ogni mattina l’undicenne si alza all’alba e cavalca, per più di venticinque chilometri, sulle montagne e per i vasti ripiani della Patagonia. Non ha scelta, la sua scuola è in una altra valle, dall’altra parte della montagna. Suo padre Gilberto gli ha comprato un mulo quando lui aveva 6 anni, ed è con questo mulo che il giovane Carlito faceva il suo lungo viaggio quotidiano verso la scuola. 

Poi, quando Carlito ha compiuto 10 anni, Gilberto gli ha regalato un cavallo, Chiverito, uno straordinario compagno di viaggio. Quest’anno, Carlito ha un altro compagno di viaggio, la sorellina Micaela. Avendo solo 6 anni, Micaela è troppo giovane per andare a scuola da sola, ma il prossimo anno, Carlito non frequenterà più la scuola di Chaos Mala e Micaela dovrà fare il suo percorso a cavallo da sola.

Il suo sogno è imparare una professione e riuscire a praticarla a casa sua, nella sua terra. Egli vuole rimanere a vivere e lavorare con la sua famiglia. Egli ama sentirsi al sicuro, ma anche imparare cose nuove e aiutare a migliorare la qualità di vita dei pastori…

Carlito Janez vorrebbe diventare un veterinario, ma non vorrebbe lasciare la sua casa per nessuna ragione al mondo.

Bay of Bengal – India

Samuel, 11 anni, ogni giorno viaggia in India per otto chilometri, anche se non ha l’uso delle gambe, spinto nella sua carrozzina dai due fratelli minori, Emmanuel e Gabriel.

Dopo aver contratto la poliomelite, il dodicenne Samuel non è più riuscito a camminare, ma la sua sete di sapere è così forte, che niente può impedirgli di andare a scuola. Proveniente da una famiglia poverissima di pescatori, lui e suoi due fratelli posseggono uno straordinario coraggio.

Prima di partire, per arrivare puliti e ordinati, i tre ragazzi mettono le loro uniformi in un sacco di plastica, la scuola fornisce una uniforme per studente ogni anno, e prima di arrivare, di nascosto, si cambiano e si accertano che i loro capelli siano a posto.

I due fratelli minori sono stati i primi ad andare a scuola. Ma il desiderio di Samuel di imparare era così grande, che suo padre ha costruito per lui rudimentale sedia a rotelle, così che anche lui possa andare con loro.

La sua sete di sapere era così forte, che niente poteva impedirgli di andare a scuola.

Samuel J. Esther continua il suo percorso scolastico.

Egli vuole diventare un dottore e aiutare gli altri bambini che hanno sofferto per la poliomielite come lui.

Hight Atlas – Marocco

Zahira 11 anni, ogni lunedì con due amiche si fa 4 ore a piedi, lungo sentieri impervi, per arrivare nella città dove c’è il collegio che le ospita fino al venerdì.

Tra i suoi due fratelli e le sue quattro sorelle Zahira spicca, è l’orgoglio e la gioia della sua famiglia.

Dietro a questo si denota una povertà che potremmo definire anche con il termine di miseria, nella quale però non intendono restare passivamente a pietire. Gli spazi che debbono attraversare possono anche apparire affascinanti a chi vive comodamente e trova che dover andare a scuola senza un mezzo motorizzato sia una inutile fatica.

Attraverso l’istruzione, vuole cambiare il suo destino. Aiutare soprattutto le persone bisognose e diseredate- Ella sa esattamente cosa vuole, ed è determinata ad ottenerlo. La scuola è la sola strada per raggiungere i suoi obiettivi.

Zahira Badi è piena di speranze e si entusiasma all’idea di raggiungere il suo sogno di diventare dottore.

Personalmente mi ha commosso notevolmente la lotta del piccolo Samuel che riusciva a frequentare la scuola, dopo ore di cammino, solo perché i fratelli  lo spingevano su una carrozzina sgangherata. Sicuramente avrà sofferto molto durante il cammino ma la voglia di imparare, di conoscere, di affrontare era superiore a tutto! Non voglio nemmeno scordare i due piccoli fratellini minori, che, uniti da un bene indissolubile, hanno aiutato il fratello maggiore in questo desiderio.

E mi ha toccato il cuore la maturità sia di Jakson che di Carlito che si sono addossati responsabilità della sorellina che avevano appresso, sfidando vari ostacoli, con un maturità ineccepibile.

Zahira invece, spinta da una voglia inarrestabile di conoscenza per divulgarla poi ai più bisognosi si è prodigata .

Ha conseguito uno dei suoi primi obiettivi, quello di andare di paese in paese per promulgare la cultura tra i poverissimi villaggi.

Questi 4 bambini sono veri e propri eroi, impavidi condottieri che perseguono la conoscenza animati dalla consapevolezza che l’unico modo per migliorarsi e sopravvivere alla povertà è saper leggere e scrivere.

Ma forse è giusto lasciare che i sogni prendano voce, così come è importante sottolineare che esistono posti in cui le vecchie generazioni si privano di affetti e forza lavoro spingendo le nuove ad andare lontano per investire su un futuro più dignitoso.

La determinazione, la maturità e la solidità di questi bambini sono già tutte presenti.

Sono sorridenti e fiduciosi perché pensano, e a ragione, di avere in mano le redini del proprio futuro.

Tratto da:

https://agiscuola.it/schede-film/item/350-vado-a-scuola.html

http://blog.iodonna.it/scuola/2013/09/23/vado-a-scuola-un-film-da-vedere-soprattutto-per-le-scuole/

 

 

 

Incontro ravvicinato di terzo tipo. La civetta

Stavo ritirando, in pieno giorno, sotto un sole cocente, gli indumenti asciutti stesi sul terrazzo,  quando ho sentito un fruscio e ho visto, con la coda dell’occhio, un uccello catapultarsi verso di me. Istintivamente ho cacciato un urlo di sorpresa mista a paura.

Contemporaneamente una civetta si è posata delicatamente sul filo da stendere, ma il mio urlo l’ha frastornata e, così come è venuta, è andata via.

Accipicchia, mi sono detta. In tutta la mia vita non ho mai visto un rapace così vicino a me e l’ho mandato via. Chissà quando mi si ripresenterà una situazione simile.

Ma non era preventivato e quindi non potevo reagire diversamente.

Ho visto tanti rapaci in volo, in montagna: falchi, pernici, gufi, fino alle maestose e meravigliose aquile, ma sempre da lontano.

Che occasione unica! Ho impresso in me il suo sguardo dagli occhi enormi che non erano da “cattivo”, come di solito si definisce lo sguardo del rapace, ma di introspezione.

Credo che anche lui ( o lei) ne abbia risentito della mia presenza e quindi sia sfuggita ad ali spiegate verso un luogo più sicuro.

E poi ricordo la sua apertura alare volteggiare libera nell’aria e allontanarsi sempre di più fino a scomparire.

Allora mi sono ricordata che negli ultimi giorni, di notte, sentivo dei suoni simili a un miagolio ed è proprio questo il “canto della civetta”. Un suono che evidenzia sia il suo territorio che un pericolo imminente.

Poi è prevalsa la paura. Ma non si dice che la civetta porta sfortuna? Sono ritornata con il pensiero nella civiltà moderna e, logicamente, mi sono documentata per saperne di più.

Non sono fortunatamente superstiziosa ma curiosa.

Ho letto quindi che “ingiustamente” la civetta è ritenuta una iettatrice!

Fonti sostengono che porti disgrazia solo alla casa verso la quale volge lo sguardo, e fortuna agli occupanti di quella sulla quale è posata.

E direi che sulla mia si è proprio posata e quindi mi aspetto al più presto una bella notizia!