Grande giovane uomo: Sammy Basso

Ho visto due volte questo straordinario film, dal titolo Il curioso caso di Benjamin Button, interpretato magnificamente da  Brad Pitt, candidato a ben 12 Oscar e averne vinto tre (scenografia, trucco ed effetti speciali).

Mai avrei pensato che il regista, David Fincher, si fosse ispirato, per realizzarlo, ai veri casi di bambini portatori di questa malattia, chiamata sindrome di Hutchinson-Gilford (progeria).

E qui mi allaccio a Sammy Basso, alla sua breve e pur straordinaria vita. Lui ha saputo “vivere” in pochi anni ciò che molti di noi non riescono in tutta la vita.

La sindrome di Progeria di Hutchinson-Gilford (Progeria o SPHG) da cui era affetto Sammy Basso, è una condizione genetica rara e fatale caratterizzata dalla comparsa di invecchiamento precoce delle cellule e dell’organismo,a ma non del cervello. Il suo nome significa, in greco, “prematuramente vecchio”.

In Italia si contano 4 casi di progenie, e lui è il più longevo, visto che l’aspettativa media è di 20 anni. 

Carissimi,
se state leggendo questo scritto allora non sono più tra il mondo dei vivi. Per lo meno non nel mondo dei vivi per come lo conosciamo. Scrivo questa lettera perché se c’è una cosa che mi ha sempre angosciato sono i funerali. Non che ci fosse qualcosa di male, nei funerali, dare l’ultimo saluto ai propri cari è una tra le cose più umane e più poetiche in assoluto. Tuttavia, ogni volta che pensavo a come sarebbe stato il mio funerale, ci sono sempre state due cose che non sopportavo: il non poter esserci e dire le ultime cose, e il fatto di non poter consolare chi mi è caro. Oltre al fatto di non poter parteciparvi, ma questo è un altro discorso…

E perciò, ecco che ho deciso di scrivere le mie ultime parole, e ringrazio chiunque le stia leggendo. Non voglio lasciarvi altro che quello che ho vissuto, e visto che si tratta dell’ultima volta che ho la possibilità di dire la mia, dirò solo l’essenziale senza cose superflue o altro…

Voglio che sappiate innanzitutto che ho vissuto la mia vita felicemente, senza eccezioni, e l’ho vissuta da semplice uomo, con i momenti di gioia e i momenti difficili, con la voglia di fare bene, riuscendoci a volte e a volte fallendo miseramente. Fin da bambino, come ben sapete, la Progeria ha segnato profondamente la mia vita, sebbene non fosse che una parte piccolissima di quello che sono, non posso negare che ha influenzato molto la mia vita quotidiana e, non ultime, le mie scelte. Non so il perché e il come me ne andrò da questo mondo, sicuramente in molti diranno che ho perso la mia battaglia contro la malattia. Non ascoltate! Non c’è mai stata nessuna battaglia da combattere, c’è solo stata una vita da abbracciare per com’era, con le sue difficoltà, ma pur sempre splendida, pur sempre fantastica, né premio, né condanna, semplicemente un dono che mi è stato dato da Dio.

Ho cercato di vivere più pienamente possibile, tuttavia ho fatto i miei sbagli, come ogni persona, come ogni peccatore. Sognavo di diventare una persona di cui si parlasse nei libri di scuola, una persona che fosse degna di essere ricordata ai posteri, una persona che, come i grandi del passato, quando la si nomina, lo si fa con reverenza. Non nego che, sebbene la mia intenzione era di essere un grande della storia per avere fatto del bene, una parte di questo desiderio era anche dovuto ad egoismo. L’egoismo di chi semplicemente vuole sentirsi di più degli altri.

Ho lottato con ogni mia forza questo malsano desiderio, sapendo bene che Dio non ama chi fa le cose per sé, ma nonostante ciò non sempre ci sono riuscito. Mi rendo conto ora, mentre scrivo questa lettera, immaginando come sarà il mio ultimo momento nella Terra, che è il più stupido desiderio che si possa avere. La gloria personale, la grandezza, la fama, altro non sono che una cosa passeggera. L’amore che si crea nella vita invece è eterno, poiché Dio solo è eterno, e l’amore ci viene da Dio. Se c’è una cosa di cui non mi sono mai pentito, è quello di avere amato tante persone nella mia vita, e tanto. Eppur troppo poco. Chi mi conosce sa bene che non sono un tipo a cui piaccia dare consigli, ma questa è la mia ultima occasione… perciò ve ne prego amici miei, amate chi vi sta intorno, non dimenticatevi che i nostri compagni di viaggio non sono mai il mezzo ma la fine. Il mondo è buono se sappiamo dove guardare.

In molte cose, come vi ho già detto, sbagliavo! Per buona parte della mia vita ho pensato che non ci fossero eventi totalmente positivi o totalmente negativi, che dipendesse da noi vederne i lati belli o i lati oscuri. Certo, è una buona filosofia di vita, ma non è tutto! Un evento può essere negativo ed esserlo totalmente! Quello che spetta a noi non è nel trovarci qualcosa di positivo, quanto piuttosto di agire sulla retta via, sopportando, e, per amore degli altri, trasformare un evento negativo in uno positivo. Non si tratta di trovare i lati positivi quanto piuttosto di crearli, ed è questo a mio parare, la facoltà più importante che ci è stata data da Dio, la facoltà che più di tutti ci rende umani.

Voglio farvi sapere che voglio bene a tutti voi, e che è stato un piacere compiere la strada della mia vita al vostro fianco. Non vi dirò di non essere tristi, ma non siatelo troppo. Come ad ogni morte, ci sarà qualcuno tra i miei cari che piangerà per me, qualcuno che rimarrà incredulo, qualcuno che invece, magari senza sapere perché, avrà voglia di andare fuori con gli amici, stare insieme, ridere e scherzare, come se nulla fosse successo. Voglio esservi accanto in questo, e farvi sapere che è normale. Per chi piangerà, sappiate che è normale essere tristi. Per chi vorrà fare festa, sappiate che è normale far festa. Piangete e festeggiate, fatelo anche in onore mio.

Se vorrete ricordarmi invece, non sprecate troppo tempo in rituali vari, pregate, certo, ma prendete anche dei bicchieri, brindate alla mia e alla vostra salute, e siate allegri. Ho sempre amato stare in compagnia, e perciò è così che vorrei essere ricordato.

Probabilmente però ci vorrà del tempo, e se voglio veramente consolare e partire da questo mondo in modo da non farvi stare male, non posso semplicemente dirvi che il tempo curerà ogni ferita. Anche perché non è vero. Perciò vi voglio parlare schiettamente del passo che io ho già compiuto e che tutti devono prima o poi compiere: la morte.

Anche a solo dirne il nome, a volte, la pelle rabbrividisce. Eppure è una cosa naturale, la cosa più naturale al mondo. Se vogliamo usare un paradosso, la morte è la cosa più naturale della vita. Eppure ci fa paura! È normale, non c’è niente di male, anche Gesù ha avuto paura.

È la paura dell’ignoto, perché non possiamo dire di averne avuto esperienza in passato. Pensiamo però alla morte in modo positivo: se lei non ci fosse probabilmente non concluderemo niente nella nostra vita, perché tanto, c’è sempre un domani. La morte invece ci fa sapere che non c’è sempre un domani, che se vogliamo fare qualcosa, il momento giusto è “ora”!

Per un Cristiano però la morte è anche altro! Da quando Gesù è morto sulla croce, come sacrificio per tutti i nostri peccati, la morte è l’unico modo per vivere realmente, è l’unico modo per tornare finalmente alla casa del Padre, è l’unico modo per vedere finalmente il Suo Volto.
E da Cristiano ho affrontato la morte. Non volevo morire, non ero pronto per morire, ma ero preparato.

L’unica cosa che mi dà malinconia è non poter esserci per vedere il mondo che cambia e che va avanti. Per il resto però, spero di essere stato in grado, nell’ultimo mio momento, di veder la morte come la vedeva San Francesco, le cui parole mi hanno accompagnato tutta la vita. Spero di essere riuscito anch’io ad accogliere la morte come “Sorella Morte”, dalla quale nessun vivente può scappare.

Se in vita sono stato degno, se avrò portato la mia croce così come mi era stato chiesto di fare, ora sono dal Creatore. Ora sono dal Dio mio, dal Dio dei miei padri, nella sua Casa indistruttibile.

Lui, il nostro Dio, l’unico vero Dio, è la causa prima e il fine di ogni cosa. Davanti alla morte nulla ha più senso se non lui. Perciò, sebbene non c’è bisogno di dirlo, poiché Lui sa tutto, come ho ringraziato voi voglio ringraziare anche Lui. Devo tutta la mia vita a Dio, ogni cosa bella. La Fede mi ha accompagnato e non sarei quello che sono senza la mia Fede. Lui ha cambiato la mia vita, l’ha raccolta, ne ha fatto qualcosa di straordinario, e lo ha fatto nella semplicità della mia vita quotidiana.

Non stancatevi mai, fratelli miei, di servire Dio e di comportarvi secondo i suoi comandamenti, poiché nulla ha senso senza di Lui e perché ogni nostra azione verrà giudicata e decreterà chi continuerà a vivere in eterno e chi invece dovrà morire. Non sono certo stato il più buono dei cristiani, sono stato anzi certamente un peccatore, ma ormai poco conta: quello che conta è che ho provato a fare del mio meglio e lo rifarei.

Non stancatevi mai, fratelli miei, di portare la croce che Dio ha assegnato ad ognuno, e non abbiate paura di farvi aiutare nel portarla, come Gesù è stato aiutato da Giuseppe di Arimatea. E non rinunciate mai ad un rapporto pieno e confidenziale con Dio, accettate di buon grado la Sua Volontà, poiché è nostro dovere, ma non siate nemmeno passivi, e fate sentire forte la vostra voce, fate conoscere a Dio la vostra volontà, così come fece Giacobbe, che per il suo essersi dimostrato forte fu chiamato Israele: Colui che lotta con Dio.

Di sicuro, Dio, che è madre e padre, che nella persona di Gesù ha provato ogni umana debolezza, e che nello Spirito Santo vive sempre in noi, che siamo il suo Tempio, apprezzerà i vostri sforzi e li terrà nel Suo Cuore.

Ora vi lascio, come vi ho detto non amo i funerali quando diventano troppo lunghi, e io breve non sono stato. Sappiate che non potrei mai immaginare la mia vita senza di voi, e se mi fosse data la possibilità di scegliere, avrei scelto ancora di crescere al vostro fianco. Sono contento che domani il Sole spunterà ancora…

Famiglia mia, fratelli miei e amore mio, Vi sono vicino e se mi è concesso, veglierò su di voi,

Vi voglio bene.

Sammy

Tratto da:
https://stream24.ilsole24ore.com/video/italia/che-cos-e-progeria-malattia-cui-era-affetto-sammy-basso/AGundoP?refresh_ce=1

Il passerotto occhialuto

Un passerotto mentre volava
contro ogni cosa si schiantava
e non riusciva a capire il perché,
sapeva volare, altro non c’è!
Il passerotto era carino,
aveva un musino birichino,
un piccolo becco molto appuntito,
ma alcune volte tornava ferito.
Andando a sbattere continuamente,

a volte si faceva male e a volte niente,
ma molto spesso era ammaccato
e qualche volta anche tagliato!
Mamma passero lo portò dal dottore,
un gufo saggio e molto sornione,
guardò il musino e poi gli occhietti
che non trovò proprio perfetti.
Doveva trovare una soluzione

per il passerotto e aveva ragione.
Tutta la notte restò alzato

ma un rimedio aveva trovato.
Quel povero passero tanto carino

non ci vedeva da vicino!
Prese due lenti, un fil di ferro,
li mise insieme e fece un modello.
Forse un po’ strano ed inusuale
di occhialino, per poter volare.
Ora se guardi lassù nel cielo
e vedi brillare a ciel sereno,
è il passerotto, ma non lo fissare
perché si potrebbe…vergognare!

Le stagioni del mare

Un bambino guarda il mare
e ritorna a giocare,
prende sabbia e secchiello
e comincia a fare un castello.
È talmente impegnato

con le torri e il tracciato,
non si accorge di nient’altro
gioca con il papà a fianco.

Un ragazzo guarda il mare
e comincia a scrutare,
cerca chi tra le onde nuota
e il suo sguardo intanto nota
una giovane ragazza
che gli piace abbastanza,
deve solo avvicinarsi
e in breve presentarsi.

Una mamma guarda il mare
e comincia a sognare,
era bello poter nuotare
e tuffarsi in alto mare.
E poi a riva ritornare

e abbronzarsi fino a scottare,
ma ora non lo può più fare,
ha il bambino da guardare.

Una nonna guarda il mare
e il ricordo in mente appare,
lei, al sole a crogiolare
e il suo corpo da osservare.
Pensa al tempo che è volato
e le torna in mente il passato.
Quanti ricordi dentro al mare,
quanti pianti da dimenticare.

Lei da sola sulla spiaggia,
e il mare l’asciugamano bagna,
una lacrima cade giù,
non importa, è solo una in più.
La sua vita è stata bella,
alza lo sguardo e vede una stella.

Guarda l’onda avanzare
e ricomincia di nuovo a sognare.

È forte il mio papà

Il mio papà è tanto bello
e porta sempre un fiore all’occhiello,
dice sempre alla mia mamma
che lei è stata la sua prima fiamma.

Io non lo so che cosa vuol dire,
ma questa frase la fa impazzire,
allora lo copre di mille bacetti:
i miei genitori sono perfetti!

Dorme vicino alla mia mamma,
mi sa che il buio per lui è un dramma,
penso di dargli il mio pupazzetto,
che è da sempre con me nel letto.

Ma ho paura che ci rimanga male;
per tutti forte deve sembrare,
in vacanza dice che è un lupo di mare;
ma se non sa nemmeno nuotare…

Ma nonostante queste paure,
la sua presenza ci rende sicure,
con lui vicino ci sentiamo protette
e ci sentiamo due reginette.

Incontro riavvicinato con una civetta

Avevo inserito tempo fa, precisamente nel 2017,  un articolo riguardante una civetta che avevo visto e ne riporto l’inizio.

“Stavo ritirando, in pieno giorno, sotto un sole cocente, gli indumenti asciutti stesi sul terrazzo,  quando ho sentito un fruscio e ho visto, con la coda dell’occhio, un uccello catapultarsi verso di me. Istintivamente ho cacciato un urlo di sorpresa mista a paura. Contemporaneamente una civetta si è posata delicatamente sul filo da stendere, ma il mio urlo l’ha frastornata e, così come è venuta, è andata via.

Accipicchia, mi sono detta. In tutta la mia vita non ho mai visto un rapace così vicino a me e l’ho mandato via. Chissà quando mi si ripresenterà una situazione simile.”

E invece eccomi di nuovo a scrivere sulla civetta, avendo di nuovo avuto un incontro riavvicinato con essa.

Mai dire mai…

Avevamo festeggiato un compleanno e fuori dal cancello erano stati appesi dei palloncini al classico filo da pesca di nylon, tra due grandi alberi di Tiglio.

Finita la festa abbiamo staccato i palloncini e tagliato il filo, ma, ahimè, una porzione di esso è rimasta appesa senza che noi ce ne accorgessimo.

Qualche giorno fa le nipotine hanno intravisto un piccolo uccello appeso dall’ala che cercava di liberarsi, ma più si contorceva più si attorcigliava.

Lo abbiamo così liberato constatando che era una civetta. Chissà perché volava così bassa, soprattutto in pieno giorno.

Due grandi occhi mi hanno scrutata e, forse ringraziata o  “sgridata”, per aver lasciato un filo appeso.

Sta di fatto che, senza volerlo, sono stata imprudente e non succederà più.

 

L’uovo di gallina…di Pasqua

C’era un uovo che era stato lasciato dalla gallina in una zona appartata del fienile. Lo aveva lasciato lì di proposito perché era straordinariamente grande, diverso dagli altri.

E sapeva che, come tutte le cose diverse doveva essere isolato, non far parte del gruppo.

Questo è quello che pensava la gallina. Non era poi successo così anche alla sua amica anatra? Non aveva uno degli anatroccoli, il più brutto, che aveva lasciato di proposito mamma e fratelli perché lo insultavano sempre? Era troppo grosso e diverso. Proprio come il suo uovo!

E l’odiosa e dispettosa gatta, non aveva messo da parte un piccolo gattino perché il suo istinto lo riteneva malato?

E la coniglietta, che dopo aver partorito è stata con loro solo due minuti per allattarli. Eh sì, lei dice che lo ha fatto per proteggere i piccoli, così la tana resta segreta.  Ma a chi la vuole dare a bere?

E l’odiosa aquila, che ogni tanto arriva dalle montagne sorvolando sopra le loro teste facendole scappare tutte. A volte però riusciva ad afferrare al volo qualche animale e lo portava via con gli artigli: si dice che lasci che i figli si azzuffino tra di loro senza intervenire. Poverini!

Insomma, avrebbe potuto raccontarne tante altre di storie che aveva visto in prima persona in cascina, quindi anche lei doveva fare qualcosa.

E lo fece, aveva contribuito mettendo da parte il suo uovo diverso. Ma era in fin dei conti una buona mamma, quindi lo depose nella paglia, al morbido, in una zona più fresca, in alto, in modo che altri animali non se ne cibassero.

Di più non poteva fare, affidava tutto al destino. Il suo compito era finito.

Sta di fatto che quel giorno fosse Pasqua e, nel pomeriggio, tutti i bimbi del vicinato chiesero al padrone della cascina se potevano fare una festa nel fienile, portando tutte le uova ricevute in dono e giocando con le varie sorprese contenute. L’uomo acconsentì, ben sapendo che gli avrebbero lasciato tutte le carte e la paglia sparpagliata qua e là. Figuriamoci se non avessero giocato a buttarsela addosso. Ma In fin dei conti era Pasqua!

Al pomeriggio ecco che un frotta di bimbi arrivarono, chi con uno chi con due o più uova. Sarebbe stata una grande festa!

Il figlio del contadino non potette partecipare perché era povero, non aveva ricevuto nemmeno un uovo. Che figura avrebbe fatto ad entrare? Da mendicante, e lui non voleva questo. Stette in disparte a sbirciare e vide tirar fuori dalle uova tanti giochi. Ma lui avrebbe preferito prima mangiarsi un uovo di cioccolata intero, poi i giochi.

I ragazzi, una volta finito con le uova fecero quello che il padrone aveva pensato: giocare con la paglia. Ma mentre fecero questo chi trovarono? Il nostro grande uovo di gallina! Meravigliati dalla grossezza lo esaminarono tutti e a uno di loro, il più giudizioso, venne in mente che il figlio del contadino non era con loro, e sapevano che era molto orgoglioso per accettare di condividere con lui le uova di cioccolato ma…

In cerchio, perché lui non vedesse (lo avevano intravisto che sbirciava), presero dolcemente l’uovo di gallina, lo pulirono bene, e, con i pezzetti  di cioccolato avanzati fecero un mosaico attorno al guscio: diventò così un bellissimo uovo di cioccolato variopinto. Cioccolato nero fondente, al latte, bianco, alla nocciola. Lo avvolsero nella carta più bella che avevano e lo chiamarono. Entrato gli diedero il suo uovo, visto che la gallina era sua. Non poteva così rifiutarlo!

Lo apri delicatamente, e, meraviglia, anche lui aveva il suo uovo di Pasqua, molto particolare e dentro c’era… un pulcino.

Che bellissimo regalo. Ma la sorpresa maggiore fu capire che aveva tanti amici e non lo immaginava.

Adesso anche lui e il suo pulcino potevano unirsi con loro a giocare.

Che bella Pasqua!

Il treno della vita

Sul treno della vita voglio viaggiare,
ad ogni fermata vorrei sostare,
guardarmi intorno e far salire,
chi, secondo me, sta a soffrire.

Prima una donna con il suo bambino,
fugge da un uomo che non le è più vicino,
non sa ancora cosa le aspetta,
ma fugge decisa, con molta fretta.

All’altra fermata sale un vecchietto,
ha la barba lunga, ma ha un bell’aspetto,
la sua famiglia lo voleva internare,
preferisce scappare, ma non sa dove andare.

Vedo una giovane dal volto emaciato,
noto il suo sguardo che è disorientato,
forse capisco da cosa è fuggita,
e quindi so che le sto salvando la vita.

Giovani, anziani, mamme o bambini,
salite sul treno, restate vicini,
date la mano a chi vi sta accanto,
ognuno di voi è molto affranto.

Per chi vuole salire c’è ancora posto,
non importa chi sei e se non ti conosco,
io guido solo questo convoglio,
voglio farti capire il bene che ti voglio.

Il treno riparte con il suo ricco “bagaglio”,
porta persone che voglion darci un taglio,
gente ferita, ma con un grande coraggio,
san quel che lasciano, il resto è miraggio.

L’uccellino ferito

Ho visto un uccellino ferito in un prato,
non ho capito se è caduto o cosa è stato,
forse la sua mamma gli insegnava a volare
e lui però non è riuscito ad imparare.

Si sente solo, si sente smarrito,
non ha capito perché è ferito,
eppure aveva ascoltato per benino,
in cosa ha sbagliato, si sente un cretino.

I suoi fratelli gli volan vicino,
eppure hanno fatto lo stesso cammino,
perché loro sì e invece lui no,
è molto triste tutto ciò.

Ma noi non siamo tutti uguali,
chi mette prima o dopo le ali,
chi vola veloce e va lontano,
chi gira intorno a un deltaplano.

Il nostro uccellino adesso ha capito,
si guarda l‘ala un poco smarrito,
ma guarirà, questo lo sa,
e riprenderà il volo, ma con mamma e papà!

Sognare il Natale

In casa scoppietta il camino,
una luce fioca nell’abbaino,
Babbo Natale se n’è già andato,
chissà se a casa è già arrivato.

I bimbi stanno ancora giocando
e alla scuola non stanno pensando,
c’è ancora nell’aria odore di festa
e molti sogni ancora nella loro testa.

Ma i nostri cuori non sono sereni,
ogni giorno è pieno di mille pensieri,
vediamo i bambini che stanno soffrendo
e tutti quelli che stanno morendo.

Non può esserci pace per tutto questo,
puoi solo pensare che è disonesto
che alcuni bambini siano contenti,
ma molti altri siano dolenti.

Ma non c’è niente che possiamo fare?
Non abbiamo risorse da sfruttare?
Noi mamme e nonne possiamo solo pensare,
che ogni bambino ha il diritto di sognare.

Il piccolo elfo

Babbo Natale è proprio arrabbiato,
uno degli elfi è influenzato,
non era proprio questo il momento,
ma che vuoi farci, con questo tempo…

L’amico elfo era quello dei pacchetti,
li disponeva sempre perfetti,
i più pesanti li metteva sotto,
altrimenti tutto arrivava rotto.

Questo compito a chi poteva affidare,
non c’era nessuno che lo poteva fare,
l’elfo brontolone se lo poteva scordare,
l’elfo ghiottone pensava solo a mangiare.

Poi vide in un cantuccio l’elfo “bambino”,
chiamato così perché era il più piccino,
stava in disparte, ma guardava ogni cosa,
forse con lui poteva risolver qualcosa.

Gli diede dei pacchi, senza dirgli il perché,
doveva fare una torre, altro da sapere non c’è,
il piccolo elfo comincia a sistemare,
i pacchi più pesanti, in fondo, dovevano stare.

Oh oh, che gioia, disse Babbo Natale,
ho trovato l’elfo che mi può aiutare,
non serve l’altezza per certi lavori,
serve la testa, con tutti i suoi accessori.

Come regalo gli fece fare un viaggetto,
il piccolo elfo era interdetto,
aveva fatto giusto perché si era interessato,
si meritava questo viaggio fatato.

Babbo Natale…in mutande

Oh oh, che fatica, sono arrivato,
ma il mio vestito è tutto bagnato,
ho tanta strada ancora da fare,
devo per forza farlo asciugare.

Lo stendo per bene in un cortile,
devo far piano, non mi devon sentire.
Sento rumore nella casetta,
voci di bimbi e di una maestra.

Sono in mutande, non mi devon vedere,
sennò che figura…è meglio tacere.
Mi affaccio un pochino alla finestra,
tanti visini, c’è aria di festa.

Vedo le luci, un alberello,
vedo il presepe con l’asinello,
che armonia, che pace mi da,
presto il vestito si asciugherà.

Mi spiace lasciare questo ambiente fatato,
ma il mio tempo ormai se n’è andato,
metto il vestito tutto di fretta,
aspetto la slitta e auguro “Buona Festa!”

Gli elfi e Babbo Natale

Siamo gli elfi e siam piccini,
noi piacciamo a tutti i bambini,
ma non abbiamo ancora capito
se è per i doni o il nostro vestito.

Scendiamo all’alba dal nostro lettino
e ci portiamo dietro un catino,
una campana rimbomba nell’aria,
è la nostra sveglia ed è necessaria.

Tutti di corsa andiamo a lavarsi,
è un grande caos per accaparrarsi,
sia il sapone che l’asciugamano,
facciamo presto o la colazione saltiamo.

Poi profumati e tutti bellini
andiamo a finire i giocattolini,
chi è addetto alle bambole o ai trenini,
chi ai peluche o ai cavallini.

Che bella atmosfera che noi creiamo,
una musica dolce nell’aria sentiamo,
siamo ancora assonnati e anche stanchini,
ma Natale è vicino: pensiamo ai bambini!

Ecco, siam pronti, è tutto finito,
facciamo i pacchetti con qualche candito,
le renne aspettano che i sacchi mettiamo,
son pronte a partire e tutti aspettiamo.

Ecco Babbo Natale, è ancora più bello,
per noi lui è un caro fratello,
no , anzi, qualcosa di più,
gli vogliamo un gran bene tutti quassù.

Ed ecco che partono, con un saluto,
anche questo Natale abbiamo potuto
costruire giocattoli per i bambini,
siamo proprio contenti, anche se siam piccini.

Una inaspettata amicizia

Un bacio all’improvviso,
stampato sul mio viso,
chissà chi me lo ha dato,
forse si è sbagliato.

Mi giro e c’è un bambino,
ha in mano un pacchettino,
mi dice”È un regalino”,
lo apro, c’è un cuoricino.

Ripeto, si è sbagliato,
a me il cuore ha dato?
Io sono un bambino,
mi ha visto da vicino?

Poi guardo il suo sorriso,
gli si illumina il viso,
chi son io per giudicare
e dir chi deve amare?

Non siamo tutti uguali,
due braccia e quattro mani,
se una non ne ho,
che male io ti fò?

Chi parla e canta sempre,
chi risponde malamente,
chi si isola in cantina,
chi va in giro con la radiolina.

Chi è bianco, giallo o nero,
non importa, per davvero,
se sei alto oppure basso,
se sei smilzo o grasso.

E allora caro amico,
prendo il regalo e sai che dico?
Non sarò mai il tuo Amore,
ma se vuoi sei nel mio cuore.

William James Sidis, grande matematico

Ho letto il libro romanzato di questo grande matematico. Il libro riporta più momenti della sua vita, in paragrafi brevi.

Non amo particolarmente questo nuovo tipo di scrittura, perché riscontro difficoltà a seguire le varie vicissitudini, devi sempre collegarti alla data sovrascritta e tornare indietro al capitolo precedente per proseguire.

Nel caso di questo specifico libro non ho riscontrato questa grande difficoltà, perché, ripeto, i capitoli erano brevi.

Ritornando al soggetto in questione, fu riconosciuto come bambino prodigio, col più alto QI  mai misurato, ben 254 punti.

Il libro si legge bene, anche se non è facile immedesimarsi nel bambino nel riuscire a capire la sua sofferenza.

La diversità, questa grande parola che ti isola, che ti annienta e che fa di te un essere da isolare, invece di una persona superdotata.

William James Sidis nasce a New York il 1º Aprile 1898.

Sin dai primi anni, dietro insistenza del padre, Boris Sidis, laureato e professore ad Harvard in psicologia, e poliglotta, come del resto lui, sin dalla tenera età, viene sollecitato a “lavorare” su se stesso, già nei primi anni,  per potenziare al massimo le sue capacità.

Egli doveva eccellere in tutto e precedere i vari comportamenti tipici dei bambini.

La madre, medico, aveva lasciato la carriera per dedicarsi esclusivamente alla casa e al bambino, ma veniva sempre ostacolata dal padre, che esercitava sul figlio una forte pressione.

Benché nel 1906 l’università lo avesse rifiutato perché troppo giovane, dal 1909 William risulta ancor oggi il più giovane studente iscrittosi ad Harvard.

William, a soli 12 anni, tenne una conferenza sui corpi quadridimensionali all’Harvard Mathematical Club, lasciando sconcertati tutti i professori e alte autorità invitate.

William iniziò a frequentare dei corsi a tempo pieno nel 1910. Il 18 Giugno 1914 ottenne un Bachelor of Arts cum laude, all’età di 16 anni.

Subito dopo aver ottenuto il diploma, dichiarò ai giornalisti l’intenzione di intraprendere la cosiddetta “vita perfetta”, cioè di ritirarsi a vita privata.

Si isolò da tutto e da tutti, anche dai genitori.

La sua vita fu infelice in tutto il suo decorso.
Tratto da:
https://it.wikipedia.org/wiki/William_James_Sidis

Ernestina Paper, primo medico italiano

Il primo medico donna menzionato nella storia è Ernestina Puritz-Manassé nacque ad Odessa nel 1846 da una famiglia agiata della borghesia commerciale ebraica di origine russa (i Puritz-Manassé).

Ci sono però alcune contraddizioni in quanto non era però di origine italiana. Ernestina non dichiarò il vero cognome al momento dell’iscrizione all’università di Pisa, ma adottò il cognome del marito Giacomo Paper, un avvocato che sposò a Odessa e che, pare, morì a Pietroburgo nel 1881. Si presume avesse anche una figlia. Elisa, nata nel 1875.

Ernestina Puritz si iscrisse alla facoltà di medicina all’Università di Zurigo che frequentò per tre semestri, tra l’8 ottobre del 1870 e il gennaio 1872 e dove, 10 anni prima, si era laureata la ventiquattrenne Nadeschda Suslowa, la prima donna medico europea.

All’università di Zurigo intraprese un percorso universitario che era molto comune per le studentesse russe, in quanto questa università fu la prima ad aprire le porte alle donne.

Nel 1872 Ernestina Puritz si trasferì in Italia dove visse fino alla morte, escluso il periodo 1897-1905 quando fece ritorno a Odessa. Nello stesso anno si iscrisse all’Università di Pisa, dove frequentò la Facoltà di medicina per tre anni, spostandosi poi a Firenze per frequentare l’ultimo biennio di pratica clinica presso il regio Istituto di Studi Superiori di Firenze e dove conseguì il primo livello di laurea nel 1875.

Si trasferì poi a Firenze per ottenere la specializzazione biennale medica presso il Regio Istituto di studi superiori pratici e di perfezionamento.

Nel XIX secolo, l’idea che una dottoressa potesse svolgere la sua attività all’interno degli ospedali pubblici non veniva facilmente accettata e per questo motivo le donne si dedicarono alla libera professione privata, proprio come Ernestina.

Una volta laureata intraprese una carriera professionale, come indica un’inserzione pubblicitaria apparsa nel marzo 1878 sul quotidiano «La Nazione» di Firenze: alla terza pagina, viene citata l’apertura di uno studio medico “per malattie delle donne e dei bambini”.

In quegli anni, la motivazione che portava le donne a laurearsi in medicina era da ricercarsi in una loro naturale predisposizione verso le sofferenze degli ammalati, tuttavia la scelta ricadeva maggiormente in alcuni ambiti della medicina, quali pediatria e ginecologia.

Nel 1886 Ernestina ottenne un incarico pubblico, in quanto la Direzione compartimentale dei telegrafi di Firenze le affidò il compito di effettuare le visite mediche al proprio personale dipendente di sesso femminile.

La battaglia delle donne per praticare la professione medica fu una delle più difficili tra le molte combattute per la parità dei diritti.

Tratto da:
https://it.wikipedia.org/wiki/Ernestina_Paper#:~:text=Ernestina%20Paper%2C%20nata%20Ernestine%20Puritz,Istituto%20di%20Studi%20Superiori%20Fiorentino.

Billy Elliot

Chi non ha visto il famoso film dal titolo Billy Elliot. Io non ricordo quante volte l’ho visto e sempre rimango meravigliata dalle doti artistiche dell’attore che lo interpreta. Un piccolo prodigio, sia come recitazione sia come ballerino. 

Il film avrebbe dovuto avere un titolo diverso, Dancer  Tuttavia, quando la pellicola venne presa al Festival di Cannes, in concorso c’era anche un altro film chiamato Dancer in the Dark, per questo motivo, per non creare confusione, il titolo è stato modificato in Billy Elliot, dal nome del personaggio. 

Il film si ispira alla storia del ballerino britannico Philip Mosley. Quando aveva soltanto tre anni Mosley ha confessato la sua passione per la danza alla madre, che però non era molto convinta della sua scelta, perché pensava che le lezioni di danza fossero qualcosa “da bambine”. Anche suo padre inizialmente non era d’accordo, ma comunque non si è mai opposto e anzi, quando ha visto suo figlio ballare, è diventato uno dei suoi più grandi sostenitori.

Probabilmente non tutti sanno che anche Jamie Bell, il protagonista principale di Billy Elliot, ha preso delle lezioni di danza quando era alle scuole superiori. Proprio a causa di queste lezioni di ballo, lo stesso Bell, come Billy, subì sulla propria pelle una serie di atti di bullismo da parte dei suoi coetanei.

Oggi Jamie Bell, dopo aver recitato in altri importanti film è sposato e padre di due bambini.

Si può dire invece di  Philip Mosley,  il vero ballerino a cui si è ispirata la storia del film, che la sua scelta artistica nell’ambito della danza non si è mai fermata, con una carriera professionale davvero piena di grandi successi.

Ormai cinquantenne, attualmente si occupa del lavoro di amministratore artistico nel Royal Ballet.

Vorrei aggiungere che la storia di Philip Mosley non è completamente uguale a quella raccontata nel film. 

Ci tengo a ricordare, in questo articolo, Jack Burn, prodigio della danza soprannominato “il nuovo Billy Elliot”, ballerino presso la Elite Academy of Dance, la prestigiosa accademia di danza di Glasgow, in Scozia, dove Jack  era riuscito a entrare a soli nove anni. 

Purtroppo questo giovane artista è morto all’età di 14 anni per cause ancora sconosciute. 


Billy Elliot

Tratto da:
https://indirettatv.it/film-serie-tv/chi-e-nella-realta-philip-mosley-il-ballerino-da-cui-e-tratto-billy-elliot/

La coccinella e il ragno

Questa favoletta mi è stata inviata da Helenia, una ragazza a cui piace scrivere storielle per bambini. Mi ha chiesto l’inserimento di qualcuna di queste nel mio blog.

Un giorno la piccola coccinella Teresa, volando nel prato, salì su di un fiore: quella mattina era così bella che decise di prendersi il sole.

Mentre si rilassava e stava quasi per appisolarsi,  senti una vocina che chiedeva aiuto. Guardò in basso e vide una farfallina incastrata in  una ragnatela…”Ehi,  ma come hai fatto a finire lì?”. La farfallina, di nome Lalla,  rispose che stava volando quando si trovò impigliata tra quei fili.

La coccinella cercò di trovare una soluzione, prese il  gambo di un fiore e lo abbassò per far aggrappare la farfallina, ma era troppo corto, allora le disse di aspettare,  scese giù e cercò di chiamare il ragno…

“Signor ragno… Signor ragno… è in casa?” chiese la coccinella. Il  ragno uscì tutto assonnato e chiese chi fosse a chiamarlo.

“Mi scusi… sono Teresa la coccinella, per favore può aiutarmi a liberare la farfalla?”

Il ragno rispose: “”E come sei finita lì?” guardando in alto.

La farfalla Lalla rispose che stava volando e, non avendo visto la tela, ne era finita impigliata

Il ragno allora prese delle piccole forbicine e liberò la farfalla.

“Grazie” disse la farfalla.

La coccinella era contenta …i ragni, pensò, non sono poi  così cattivi!

Mentre la farfalla si toglieva  gli ultimi fili della ragnatela chiese al ragno “Cosa posso fare per te?”

“Già, che possiamo fare per te, signor…?” disse la coccinella.

Il ragno sorrise…” Mi chiamo Gaio! Beh,  visto che la mia ragnatela è rotta, potreste aiutarmi a ripararla!”

Allora la farfalla prese il volo …”arrivo subito!” esclamò:” prendo il mio ago e filo e la rimetto a posto!”

In un battibaleno la farfalla Lalla tornò, riparò la ragnatela e rese felice il ragno.

Continuarono la loro giornata insieme tra racconti e risate.

La casetta nel bosco

C’era una volta un nonno, dalla lunga barba, che viveva in un bosco. La sua casetta era piccolissima, fatta di legno e tutti gli abitanti della foresta erano soliti passare di lì per salutarlo o perché avevano bisogno del suo aiuto.

Chi doveva farsi togliere una spina nella zampetta, chi aveva male a un dente, chi aveva mal di pancia.

Il nonno li conosceva uno per uno,  e per tutti aveva un rimedio.

Un giorno bussarono alla sua porta alcuni gnomi,  gli chiesero di seguirlo perché avevano bisogno del suo aiuto. In pochi minuti era pronto per partire, aveva messo nel vecchio zaino tutto quello che poteva servire per curare qualsiasi malanno.

Non chiese nulla agli gnomi, non era la prima volta che li aiutava: un animale preso in una trappola, un altro scivolato in una buca, un uccellino caduto dal ramo con una ala spezzata…

Questi erano alcuni degli interventi che aveva dovuto fare. Quindi pensò che anche questa volta si sarebbe trattato di qualcosa di simile.

Dopo aver attraversato vari ruscelli e alcuni sentieri gli gnomi si fermarono. Il nonno non credeva ai propri occhi, davanti a lui, sdraiata in un tappeto di foglie, c’era una bimba bellissima , dai capelli rossi.

Dormiva e il nonno rimase estasiato da quel fagottino tenero. La prese delicatamente in braccio e, prima che giungesse la notte, la bimba era già nella casetta del nonno. La rifocillò con del buon latte caldo di capra e dopo poco tempo questa  si addormentò.

Chi era questo essere stupendo, come si chiamava, chi l’aveva portata nel bosco? Queste, insieme ad altre mille domande affluirono nella sua mente.

Più volte, parlando con gli amici gnomi, aveva confidato loro che si sentiva solo, che avrebbe voluto un po’ di compagnia, soprattutto in inverno, dove molti animali andavano in letargo per cui il suo “lavoro” era ridotto.

Capì che gli gnomi, avendo poteri magici, in cambio dei suoi servizi giornalieri, avevano voluto fargli un dono meraviglioso.

Il nonno e la bimba, che chiamò Arianna, divennero inseparabili. Questa  conquistò il cuore di tutti gli animali del bosco per la sua gentilezza, disponibilità e bontà.

Il nonno le insegnò a curare tutti i problemi dei suoi piccoli e grandi amici.

Arianna crebbe e diventò una splendida ragazza, dai lunghi capelli lisci e morbidi.

Un giorno un giovane cacciatore bussò alla porta del nonno  perché si era procurato una ferita alla gamba, venne curato da Arianna,  ma rimase affascinato dalla sua bellezza e gentilezza.

Dopo poco tempo si sposarono invitando tutti gli animali del bosco.

E rimasero per sempre a vivere nel bosco, in una capanna e vissero per sempre felici e contenti.

I due uccellini amici

Due uccellini sono in un prato,
uno dei due però è azzoppato,
non si sa bene come è successo
e purtroppo, è proprio mal messo.
 
L’altro uccellino si ferma a guardare
e non capisce che cosa può fare,
gli lecca la zampa, lo vuole guarire,
è molto triste vederlo patire.
 
Gli porta un vermetto, lo vuol consolare,
è l’unica cosa che adesso può fare.
Deve pensare, lui è ancora piccino,
ma ha un cuore grande, come un mastino.
 
Per quanto ci pensi non c’è nulla da fare
e solo il tempo lo può risanare,
può stargli vicino, farlo mangiare,
la compagnia non gli deve mancare.
 
Passano i giorni e sono poi tanti,
l’uccellino sta bene, ce l’ho qui davanti,
comincia a saltare sulla zampina,
è buona cosa, mi dice una vocina…
 
Allora ho capito che l’amore fa tanto,
sono stato bravo e un po’ me ne vanto,
niente è nessuno ci potrà separare,
se guardi su in cielo ci vedrai volare.
 

Suor Chiara di Cerbaiolo

Mi ha molto colpito leggere notizie riguardanti il modo di vivere di questa semplice donna, nata come Maria Annunziata Barboni, conosciuta poi come Suor Chiara.

Nata a Porto Corsini nel 1924, una piccola frazione di Ravenna, un tipico villaggio di pescatori, questa eccezionale donna, apparteneva all’ordine della piccola fraternità Francescana di Santa Elisabetta d’Ungheria, ma la sua spiritualità era talmente semplice, da ricercare come posto in cui vivere la sua vita, un ambiente solitario, in mezzo alla natura.

Come eremo scelse il Monastero benedettino di Cerbaiolo, in provincia di Arezzo. La guerra lo aveva devastato e nel 1966 lei curò la ricostruzione di una porzione e ci andò a vivere. Aveva sentito dentro di sé che quello era il posto che cercava.

E ci visse per trent’anni, insieme a un piccolo gregge di caprette.

Donna di grande spiritualità, lavorando nella stalla la si sentiva pregare il Padre Nostro, ma con parole sue. Dacci oggi il nostro fieno quotidiano….

La sua casa era la sua Chiesa, ed era anche un rifugio per animali, loro erano la sua famiglia e il suo mondo. Pregava con loro davanti al fuoco, o durante altre incombenze normali.

Chi ha avuto l’onore di poterla conoscere non ha avuto difficoltà a riconoscere la sua semplicità e la profonda saggezza di chi, ponendosi le domande immutabili nascoste in noi, aveva trovato le risposte.

Il suo più grande desiderio: quello di andare in Paradiso, non solo in terra, ma anche in cielo.

È mancata il 29 Aprile 2010 ed è stata seppellita nel cimitero monastico ai piedi dell’antico monastero.

La leggenda della donna foca

Mitica leggenda irlandese, raccontata in più versioni.

Più precisamente si tratta di Selkie, creature mitologiche della mitologia irlandese, islandese, e scozzese che possono trasformarsi da foche a donne nelle notti di luna piena.

Si credeva che le foche fossero persone annegate in mare e che una volta l’anno ritornassero sulla terra, si togliessero la pelle di foca e ritornassero umane per una notte di danze.

Scrivo della versione irlandese, più fantastica, delle Isole Faroe, più precisamente a Mikladalur, isola al Nord dell’Irlanda, un piccolo paesino molto caratteristico e tenuto bene, dove è situata la statua della donna foca.

Un giorno un contadino, che voleva vedere se esistevano veramente le Selkie, si nascose sulla spiaggia per osservare e da lì vide una bellissima donna foca.

Sottrasse il manto della giovane ragazza che, in questo modo, non poté più tornare in mare. Il giovane la costrinse poi a restare con lui e sposarlo, mentre teneva il manto sotto chiave in uno scrigno.

Un giorno, mentre è in mare a pescare, si accorge di non aver portato con sé la chiave dello scrigno e, quando torna a casa, trova che la sua sposa è già fuggita in mare, con i suoi simili.

Da quel giorno il contadino non la vide più, anche se, quando usciva in mare, una foca si aggirava costantemente attorno alla sua barca.

Tratto da:

 

La lucciola Lumière

C’era una volta una piccolissima lucciola che si chiamava Lumière.

Era una lucciola molto speciale, le piaceva girovagare per i prati da sola e quando le altre lucciole la chiamavano per unirsi a loro, faceva finta di non sentire e andava dalla parte opposta.

Le altre lucciole giocavano, facevano scherzi agli animali, si posavano su di loro facendo così notare ai predatori la loro presenza, insomma erano molto birichine. Ma la nostra lucciola no, era molto seria e l’unico suo passatempo era girare in lungo e in largo intorno a una coppia di lampioni innamorati.

Questi notavano la presenza della lucciola  che ogni sera andava a trovarli, ma a loro non dava fastidio.

Come ogni sera la lucciola partiva verso il parco dove vivevano i due lampioni, che con il  loro silenzio le tenevano compagnia, ma un giorno accadde qualcosa di speciale, una lucciola aveva urtato con la sua pancina, dove emana la luce, contro un grosso ramo e la luce si era spenta.

Non aveva possibilità di vedere nulla e al buio, unirsi alle altre lucciole che ormai erano lontane, era difficile. Si sentiva sola, aveva paura, tremava. “Oh povera di me, esclamava, come faccio a ritornare a casa, a ritrovare i miei fratelli…E comincio a singhiozzare “sigh, sigh”.

Tutto questo attirò l’attenzione di Lumière che, incuriosita, si avvicinò alla povera lucciola.

“Cosa ti è successo? Ti sembra il caso di fare tanto rumore e disturbare con i tuoi lamenti questa quiete? Non puoi andare più lontano a piangere?”.

La poverina smise di piagnucolare ma trovò molto strano il comportamento di questa suo fratello, dovrebbero essere amici visto che il Signore li aveva fatti uguali, dovrebbero aiutarsi l’un l’altro, dovrebbero condividere i propri dispiaceri, come mai invece non era così?

Comunicò tutto questo alla lucciola e questa, per la prima volta, capì che il suo comportamento era sbagliato. Faceva parte del gruppo, il suo posto era con loro. E cominciò subito la sua opera, fece da guida notturna, con la sua luce, alla povera lucciola, che riuscì così a riunirsi alle altre.

Comprese per la prima volta cosa era la felicità, aveva aiutato un suo simile, gli aveva fatto da guida e compagnia, aveva potuto ridargli la serenità e ricondurlo dai loro fratelli e amici.

Da quel giorno non si separò più dal gruppo, imparò che giocare e ridere è molto bello, che condividere un percorso di vita con qualcuno ti rende più ricco dentro.

Morale: andiamo sempre al di là delle apparenze, ritroviamo la  luce dentro di noi  e  facciamola  brillare…è nel buio che  la nostra luce brillerà di più!

Canzone: La barchetta di carta

Ho sempre scritto filastrocche o favole abbinando poi una grafica o un disegno, questa volta invece ho fatto il contrario. 

Mi è venuta in mente una vecchia canzone dello zecchino d’oro, del 1993, intitolata La barchetta di carta. 

Riporto di seguito il testo.

Con una pagina di un vecchio giornale
Là sulla spiaggia un nonno occasionale
Mi ha fatto una barchetta un po’ speciale
Che galleggia superba sul mare.

È proprio bella, mi sembra un’ammiraglia
Mi piace tanto perché mi fa sognare
Non è mai stanca e si lascia guidare
Per ore ed ore senza brontolare…

Non ci sto dentro, ma sono il capitano
E la manovro con una sola mano
Solchiamo i mari immensi della fantasia
Poi torno a casa perché ho nostalgia

Ho già girato
In lungo e in largo il mondo
Ma che succede?
La barca si è inzuppata…
Ahimè! La mia ammiraglia è affondata!
Chissà se il nonno me ne farà un’altra…

È proprio bella, mi sembra un’ammiraglia
Mi piace tanto perché mi fa sognare
Non è mai stanca e si lascia guidare
Per ore ed ore senza brontolare…

Non ci sto dentro, ma sono il capitano
E la manovro con una sola mano
Solchiamo i mari immensi della fantasia
Poi torno a casa perché ho nostalgia

Non ci sto dentro, ma sono il capitano
E la manovro con una sola mano
Solchiamo i mari immensi della fantasia
Poi torno a casa perché ho nostalgia…

Il coraggio dei fratellini colombiani

Stamane ho appresa la notizia del ritrovamento dei 4 fratellini, che hanno girovagato nella foresta amazzonica colombiana per 40 giorni, dopo un incidente aereo, dove hanno perso la vita la mamma e altri 2 adulti.

Non voglio in questo articolo parlare della vicenda perché in questi giorni si potrà leggere e sentire molto di questo miracolo straordinario, ma mi sento di fare un momento di riflessione su questo fatto.

Il senso logico fa pensare che se tutti i 4 bambini si sono salvati saranno stati seduti in una parte dell’aereo che li ha salvati, ma mi piace credere che il tutto possa essere un monito.

In molte scuole vengono organizzate gite al Parco avventura, dove vengono utilizzati dai bambini i “ponti tibetani”, cioè ponti traballanti, i “tree climbing”, comunemente detta arrampicata sugli alberi, l’utilizzo di liane e molto altro, tutto questo in estrema sicurezza. Per loro può essere un gioco, ma se anche una minima parte di questo potesse essere d’aiuto in circostanza estreme, sarebbe bellissimo.

Per i bambini cambogiani non era un gioco, ma una realtà, di cui non si sarebbero mai aspettati di far parte. Eppure anche loro ne sono usciti “provati”, ma indenni.
Non sottovalutiamo mai la capacità dei bambini!

Sicuramente, in questa storia, il fatto che fossero tutti insieme ha decisamente instaurato in loro l’istinto di sopravvivenza e, anche se debilitati e consapevoli che la loro mamma non c’era più, credo che sia stato essenziale che vi fossero anche due bambini più grandi, su cui il gruppo si è appoggiato, ma se pensiamo alla responsabilità che si sono addossati, da soli in una giungla per così tanto tempo, mi fa venire la pelle d’oca.

La speranza, unita all’aiuto che hanno ricevuto tramite kit di soccorso inviati per via aerea, le loro capacità nel muoversi nella giungla, costruendo rifugi improvvisati e mangiando frutta hanno rappresentato per loro la salvezza

Mi ha molto colpito, come nonna, leggere che parte di questo lieto fine è legato alle conoscenze ancestrali trasmesse dalla loro nonna. Si racconta che uno degli elicotteri utilizzati per la ricerca abbia diffuso un messaggio, registrato proprio da questa, in lingua huitoto che diceva loro di smettere di muoversi nella giungla. Credo che se hanno avuto modo di sentire la registrazione , questo li abbia aiutati a non sentirsi soli.

 E vorrei allora ricordare tutti gli altri bambini coraggiosi, in un modo o in un altro, di cui ho scritto nel blog in questi anni :

Andrè Roussimoff:
http://www.tiraccontounastoriablog.com/?s=Andr%C3%A8+Roussimoff+

Bimba sirena: 
http://www.tiraccontounastoriablog.com/?s=la+bimba+sirena

Frida Kahlo:
http://www.tiraccontounastoriablog.com/?s=Frida+Kahlo+

Gypsy Blanchard:
http://www.tiraccontounastoriablog.com/?s=Gypsy+Blanchard+

Hellen Keller:
http://www.tiraccontounastoriablog.com/?s=Hellen+Keller

Johnny Clem, il tamburino
http://www.tiraccontounastoriablog.com/?s=Johnny+Clem+

Le gemelle Dionne:
http://www.tiraccontounastoriablog.com/?s=Le+gemelle+Dionne

Mowgli, la bimba indiana:
http://www.tiraccontounastoriablog.com/?s=Mowgli

Mr Mowgli tra i lupi:
http://www.tiraccontounastoriablog.com/?s=Mr+Mowgli+tra+i+lupi

Ruby Bridges:
http://www.tiraccontounastoriablog.com/?s=Ruby+Bridges

Stephen Hawking:
http://www.tiraccontounastoriablog.com/?s=Stephen+Hawking+

Suzanne Walcott (bambole Gorjuss) :
http://www.tiraccontounastoriablog.com/?s=Suzanne+Walcott%2C+

Wang Fuman, la storia di fiocco di neve:
http://www.tiraccontounastoriablog.com/?s=Wang+Fuman

Il silenzio dell’anima

Le mie parole cadono nel vuoto, 
come scintille di un fuoco
che arde nel camino.
Scivolano via lente,
si depositano a terra,
calpestate da un’ombra
che vaga cupa intorno.
Ma restano impresse in me,
vengono spinte all’interno
e bruciano in un cuore
che esplode d’amore.
Un cuore ferito, straziato,
sofferente, così come la vita
che sta scorrendo inesorabile,
lenta, ma ancora vitale,
alla ricerca di quello
che non esiste più.

L’erba voglio

C’era una volta un Re che viveva nel suo bellissimo Castello con la moglie, la Regina e il suo figlioletto di 4 anni, Nicolas.

Il principino era molto viziato, ogni giorno pretendeva che il Re gli procurasse nuovi giocattoli, ma più ne faceva pervenire  a corte più Nicolas ne voleva, a tal punto che il suo gioco principale non era giocarci ma romperli, pretendendone così sempre di nuovi. 

“Voglio una nuova macchinina”; “Voglio un nuovo triciclo”; “Voglio un nuovo trenino”…

Voglio, voglio, voglio, il principino ogni giorno chiedeva questo al papà. Il Re, per accontentarlo, faceva sempre pervenire alla Reggia tutto quello che lui chiedeva, ma pur avendo di tutto Nicolas non era felice, non era capace a giocare!

Tutti i sudditi del paese sapevano che il Re aveva difficoltà a farsi ubbidire dal figlio e, pur rispettandolo e amandolo molto, criticavano questo suo modo di comportarsi.

Un giorno arrivò al Castello un vecchio saggio, spacciandosi per un Mago e propose al Re che poteva aiutarlo, seminando nel suo giardino un’erba magica, “l’Erba Voglio”.

Questi gli promise che, una volta cresciuta, al principino sarebbe bastato mettersi vicino a questa e gridare a voce alta quello che desiderava e in pochi secondi quello richiesto sarebbe apparso.

Quale miglior proposta potevano fare al Re!

Non doveva più badare ai capricci del figlio, non doveva più mandare i suoi maggiordomi a cercare questo o quell’altro giocattolo.

Il Re accettò volentieri l’offerta.

Il vecchio vangò a mano un pezzetto di prato, seminò l’erba magica e ogni giorno venne al Castello a bagnarla.

Quando questa fu cresciuta il vecchio annunciò al Re che il suo lavoro era finito, ora il giardiniere del castello non doveva far altro che bagnare e tagliare l’erba, una volta cresciuta. 

Quando il Re volle ricompensare il vecchio, questi rifiutò dicendogli che non voleva essere pagato, che lo rispettava e che questo era un suo regalo.

Dopo averlo ringraziato e congedato il Re pensò di chiamare il figlioletto spiegandogli quello che doveva fare, ma curioso e con il desiderio di aumentare le sue ricchezze, si mise di fronte al prato, guardandosi bene attorno che nessuno le vedesse e sentisse e cominciò a gridare “Voglio una carrozza tutta d’oro”, aspettò, ma non successe niente.

Convinto di aver chiesto troppo gridò “Voglio un baule di pietre preziose”.

Ma anche questa volta non apparì nulla. Continuò a fare diverse richieste ma non successe mai niente.

Capì così di essere stato imbrogliato dal vecchio, che l’Erba voglio non esisteva.

Dopo un attimo di collera verso il vecchio, perché lo aveva preso in giro, capì la lezione, se i suoi desideri fossero stati esauditi non si sarebbe mai fermato, avrebbe voluto sempre di più.

Ed era esattamente quello che lui faceva con Nicolas, lo esaudiva sempre e questi pretendeva sempre qualcosa di diverso.

Da quel momento cominciò a dire “No” al figlio che, sorpreso da questo cambiamento, ma amando molto il padre, non osò replicare.

Da allora imparò a ubbidire e a giocare con quello che possedeva, si fece degli amici e incomincio a capire che giocare è bellissimo.

E avere anche tanti amici!

La minestra di sassi

Ho letto nel web  più volte questa “fiaba”, che ha subito diversi adattamenti, ma il fine, la condivisione, c’è in ognuna.   

Un giovane, stanco e affamato, un giorno giunse in un piccolo villaggio. Faceva freddo e c’era la neve per terra.

Bussò ad ogni porta chiedendo cibo e riparo, ma tutti gli rispondevano che non avevano niente da dargli. Allora il giovane, a mezzogiorno in punto, nella piazza del paese, dallo zaino tirò fuori una pentola, e la riempì di neve, accese un fuoco sotto la pentola, e aspettò che la neve si sciogliesse.

Gli abitanti del villaggio rimasero attoniti, e si chiedevano che cosa stesse mai facendo.

Il giovane poi tirò fuori dallo zaino due grossi sassi ben levigati e li buttò nell’acqua ormai bollente, ma piano, ad uno ad uno, in modo che tutti quelli che lo stavano spiando potessero vedere bene.

“Cosa stai cucinando?” esclamò un vecchietto.“La minestra di sassi!” rispose lo sconosciuto.

Poi dal sacco tirò fuori un cucchiaio, e si mise a rigirare l’acqua bollente, poi l’assaggiò e se ne compiacque, come se avesse assaggiato la migliore minestra del mondo.

“È buona?” chiese sempre il vecchietto.

“Eccome!” disse il giovane, “ma con un paio di cipolle sarebbe ancora migliore”.

“Io un paio di cipolle ce l’ho, vado a prenderle a casa e le porto subito!” disse un altro anziano, si allontanò e ritornò con le cipolle.

Il giovane le mise nella pentola, le rigirò, e poi assaggiò di nuovo con il suo cucchiaio. E allora disse: “Beh, se ci mettessimo anche qualche carota, e un po’ di patate, sarebbe proprio perfetta!”.

E allora la gente andò a procurare quanto lui aveva chiesto e glielo portò.

La minestra cominciò ad emanare un buon profumo e gli abitanti avevano l’acquolina in bocca.

E allora alcuni proposero: “Perché non ci mettiamo anche delle ossa di manzo? Pensate che si possano aggiungere alla vostra minestra?” Il soldato rispose di sì, e allora di lì a breve poté aggiungere anche quelle alla minestra; alcuni portarono anche un po’ di sale e di formaggio, e il ragazzo aggiunse anche questi ultimi ingredienti.

La minestra ormai era pronta e aveva un ottimo profumo.

Il giovane sconosciuto ne versò la prima scodella per il vecchietto che gli aveva fatto la prima offerta e ne versò anche agli altri abitanti, e infine anche per lui.

Tutti mangiarono insieme intorno al fuoco, chiacchierando amichevolmente.

Una volta che si furono saziati, qualcuno iniziò a cantare, altri a ballare, e l’atmosfera si fece sempre più allegra e festosa.

Ad un certo punto il giovane se ne andò senza essere visto, mentre gli abitanti del villaggio stavano ancora facendo festa.

Nessuno lo vide più.

La formichina solitaria

C’era una volta una formichina molto pigra, non le piaceva assolutamente lavorare. Si sa che le formiche sono delle grandi lavoratrici instancabili che trasportano con le loro mandibole tutto ciò che può servire, anche se è molto più pesante di loro,  lavorando di gruppo, ma la nostra formichina era diversa!

Ella amava la solitudine, girovagava tutto il giorno di qua e di là, curiosando tra le altre famiglie di animali che occupavano il bosco.

Era talmente piccola che passava inosservata.  

La formica Regina  aveva imposto una nuova legge: ogni oggetto o cibo che ogni singola formica operaia portava all’interno del formicaio doveva servire esclusivamente alle altre formiche e non a se stessa. Alle sue necessità avrebbero provveduto le altre.

La nostra piccola formica, molto furba, aveva appreso bene questo nuovo comando, considerando che per lei ci sarebbe stato sempre cibo a disposizione, quindi perché preoccuparsi? Poteva fare a meno di lavorare, di trasportare oggetti o cibo verso la tana, intanto a lei non sarebbero serviti!

Arrivò così l’inverno e con l’inverno arrivò la neve, la possibilità di procurare nuovo cibo era inesistente, ma la scorta che le altre formiche, in tanti mesi di lavoro, giorno dopo giorno, con grande fatica avevano racimolato, era notevole. Semi, briciole, insetti, foglie…

Ma la formica Regina si era accorta che la nostra formichina non aveva mai portato nulla nella tana, rientrava la sera ma non era stanca come le altre, per cui, in pieno inverno, la allontanò , non poteva far parte del gruppo.

La poverella si trovò così da sola, infreddolita, affamata e, nel silenzio del bosco, cominciò a capire il grande errore che aveva fatto: aveva pensato solo a se stessa!

Come poteva rimediare? Non voleva stare lì da sola, l’inverno era lungo, poteva ammalarsi per il freddo, poteva morire di fame.

Così volle rimediare al suo errore, cominciò a perlustrare la zona in cerca di qualcosa da portare nel formicaio, con la speranza che la Regina l’avrebbe perdonata.

Si avventurò dentro il bosco, vicino alle case, alla ricerca di qualcosa da mangiare e, con grande stupore, vide dei bambini giocare con la neve, dopo aver fatto colazione. Per terra c’erano molti pezzetti di cibo strano, diverso: briciole di patatine, cracker, brioche, noccioline, bucce di frutta. Eureka, se portava questo nuovo cibo nella tana la Regina l’avrebbe perdonata.

E fu così! La Regina, visto che aveva capito il suo errore la perdonò e…tenne per se quel cibo così strano e buono!

                                                                    

Rosa Parks: la madre del movimento per i diritti civili

Ho finito di leggere un testo di psicologia di Luca Mazzucchelli, che non ha bisogno di pubblicità per farsi conoscere, avendo fatto molti video che sono online su YouTube.

Luca è uno psicoterapeuta e imprenditore che ha trovato nella società il suo spazio, dopo il classico rodaggio e, ammettiamolo, anche con la fortuna di aver qualche incontro importante. Ma non si è mai tirato indietro e ha avuto coraggio di affrontare molte cose.

Nel libro si parla proprio di questo coraggio che tutti dovremmo avere per poter andare avanti, per poter arrivare a essere felici. Cita anche alcuni personaggi che hanno avuto il coraggio di fare alcune scelte e sono stati premiati.

Ma non è di Luca che vorrei parlarvi, ma di Rosa Parks, che egli cita appunto nel libro, quando tratta l’argomento sul coraggio.

Rosa Parks nasce a Tuskegee, Alabama (Stati Uniti) nel 1913. A diciannove anni  sposa Raymond Parks, barbiere di carnagione bianca, che faceva parte del movimento per i diritti civili. Dividendosi tra il lavoro di sarta e l’attivismo politico al fianco del consorte, si distinse per il supporto offerto a nove ragazzi afroamericani (gli Scottsboro Boys), che dopo una rissa su un treno vengono accusati ingiustamente di aver usato violenza su due ragazze bianche, a cui la Parks mostrerà supporto emotivo e concreto, partecipando e organizzando diverse iniziative a favore della loro liberazione.

Ma l’avvenimento più eclatante è avvenuto Il 1 Dicembre 1955, a Montgomery, Alabama. Terminata la giornata lavorativa, la quarantaduenne Rosa Parks, di pelle nera e di professione sarta, prende l’autobus 2857, diretta a casa. Si siede in una fila centrale, ma quando dopo poche fermate sale un passeggero bianco, il conducente le chiede di alzarsi per lasciargli il posto, come impongono le regole.

Rosa conosce perfettamente queste regole: i neri siedono dietro, i bianchi davanti, mentre i posti centrali sono misti e si possono usare solo se tutti gli altri sono occupati, ma la precedenza spetta sempre ai bianchi. «Non stavolta», pensa Rosa, e senza rifletterci troppo risponde che «no», non intende alzarsi. A quel punto, il guidatore del mezzo chiamò la polizia che arrestò la donna.

La Parks fu quindi incarcerata con l’accusa di “condotta impropria”, ma poche ore dopo l’accaduto venne scarcerata grazie a Clifford Durr, un avvocato bianco e antirazzista, da sempre impegnato nella battaglia per i diritti civili della comunità afroamericana, che decise di pagare la cauzione alla donna.

«Dicono sempre che non ho ceduto il posto perché ero stanca, ma non è vero. Non ero stanca fisicamente, non più di quanto lo fossi di solito alla fine di una giornata di lavoro… No, l’unica cosa di cui ero stanca era subire»

Quel rifiuto la trasforma all’improvviso in un’eroina dei diritti dei neri.

Fu citata come “La madre del movimento per i diritti civili”.  


L’autobus citato, ora esposto all’Henry Ford Museum

 

Tratto da:
https://it.wikipedia.org/wiki/Rosa_Parks

https://www.studenti.it/rosa-parks-storia-biografia-e-pensiero.html

https://www.focus.it/cultura/storia/la-storia-di-rosa-parks-eroina-dei-diritti-dei-neri

Il topo e il gatto

C’era una volta un grossissimo topo che viveva in una bella casa di campagna. Si era costruito da solo la sua tana scavando, giorno dopo giorno, nel muro della cantina.

Gin, questo il nome del topone, ogni notte usciva dalla sua abitazione, per andare in cucina a mangiare, divorando fino alla sazietà tutto quello che trovava, e portando con sé sempre qualcosa: pane, frutta, biscotti, tutto quello che poteva.

La padrona di casa vedeva sempre che, parte del cibo lasciato per il figlio, al mattino non c’era più, ma credeva che lo avesse mangiato di notte. E quindi, ogni sera si ripeteva la stessa cosa.

In questa casa viveva anche Tommy, un giovane gatto molto dormiglione che non si accorgeva mai di nulla. A lui bastava mangiare e dormire!

Ma una notte accadde un fatto increscioso: Gin, dopo aver divorato una gran quantità di quella pappa, pronto a rientrare nella sua tana, rimase incastrato nel buco, non andava né avanti né indietro.

Spingeva, si dimenava ma non c’era nulla da fare.

Povero me, pensò, Se la padrona di casa mi vede mi farà mangiare dal gatto! Aiuto! Cominciò a sbattere la coda di qua e di là con l’intento di riuscire a passare ma niente da fare.

D’un tratto tutto questo rumore svegliò Tommy che, mezzo addormentato, vide questa scena ridicola: il grosso sedere di un topo che sporgeva da un buco!

Voleva aiutarlo ma non poteva tirarlo per la coda perché gli avrebbe fatto male, quindi cominciò a spingere una, due, tre volte finché il topo riuscì a uscire dal buco facendo un bel capitombolo.

Finalmente sono libero!

Però adesso come poteva mangiare? Non riusciva più a passare da quell’apertura…

Dopo una settimana di digiuno la pancia diminuì, quindi riuscì a passare dal buco e andare a ringraziare il suo amico gatto.

Quella lezione gli era servita anche se continuò sempre a rubare qualcosa ma in maniera limitata, solo il necessario.

Divenne così un bel topo elegante e l’amicizia fra lui e il gatto durò per tantissimi anni.

E la padrona di casa? Sta ancora domandosi come mai il figlio, di notte, non ha più fame!