Pescare: che passione

Ho iniziato ad avvicinarmi alla pesca in mare già da bambina. Abitando a Genova potevo effettuare questo magnifico sport con poca difficoltà logistica.

Si partiva, la famiglia al completo, genitori e fratelli, da Genova per andare a Camogli, nella riviera ligure di levante e da lì si prendeva il vaporetto che portava a Punta Chiappa.

Tutto era entusiasmante: il viaggio in mare, anche se durava poco, era bellissimo. Galleggiavi tra le onde con i gabbiani che ne seguivano la scia.

Giunti sul famoso scoglio, proteso sul mare ricco di pesci, respiravo l’aria a pieni polmoni, ossigeno puro e profumo di mare. Cosa c’è di più bello!

Appena scesi dal vaporetto si passava alla trattoria, a picco sul mare, per ordinare per pranzo l’aragosta, piatto prediletto di mio padre, che io invece non apprezzavo.

Le stesse galleggiavano vive in mare aperto delimitato da una rete.

E poi, finalmente, si poteva andare a pescare, distanziati l’uno dall’altro, per non ingarbugliarsi con il filo.

L’esca era un verme alternato al pastone, che i miei fratelli avevano preparato a casa, mettendo a mollo del pane duro, pangrattato e formaggio pepato vecchio, lavorandolo fino a raggiungere una consistenza simile al pongo. Ne facevano poi alcune palle avvolte in una pezza asciutta.

Quindi, io avevo sia la scatoletta con i vermi che il composto.

Una volta posizionato il boccone sull’amo, non dovevo far altro che buttare il filo con il galleggiante, senza mulinello perché eravamo già in alto mare. E poi attendevi che questi si muovesse, prima piano piano e, quando lo vedevi inabissarsi, davi un forte strattone per ancorare lo sfortunato pesce.Nell’attimo che non vedevi più il galleggiante, l’adrenalina saliva per poi crollare alla vista del pesce che avevi eliminato per sempre dal suo ambiente naturale.

Passando gli anni le avventure legate al mare sono continuate ma in modo diverso. Si utilizzava sempre il battello, nel periodo di maggio-luglio, ma per andare a pesca di aguglie su un molo a Genova Prà.

Facevamo l’ultima corsa serale per stare poi sul molo tutta la notte (a quei tempi non utilizzavi il cellulare). Eri nel buio completo, con la sola luce delle torce per non finire in acqua. E stavi lì, tutta la notte, insieme ad altri pescatori che non conoscevi e non vedevi. Un thermos con il the caldo, una giacca a vento, le canne da pesca, il retino era tutto ciò che avevi.

Con questi pesci si doveva preparare l’occorrente già da casa utilizzando una tecnica particolare: si foravano e poi si applicavano tappi di sughero, distanziati tra di loro sul filo di nylon.

Applicavi il galleggiante fluorescente per poter intravedere la tua esca e, quando percepivi il movimento ondulatorio diverso dell’acqua, sapevi che stava arrivando un banco di sardine, prede inseguite dalle aguglie.

Non sono orgogliosa di aver praticato, per tanti anni, la pesca, ma sono rimasta maggiormente inorridita quando ho visto utilizzare la pesca sportiva. La trovo disumana.

Tirare a riva il pesce per il gusto (da brivido, lo ammetto per le dimensioni dello stesso) per poi rigettarli in acqua.  Poveretti, non riesco a quantificare quante ferite labiali e quanti ami avranno ingerito. 

So per certo che, questo tipo di pesca, non la effettuerei mai!

 

 

 

 

 

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